Il castello di Miglianico tra leggenda e verità storica

Grazie alle richieste di una maestra della Scuola Primaria di Miglianico, ho dovuto con piacere assemblare per i piccoli della prima elementare del paese un piccolo testo che riassumesse le leggende (narrate con dovizia di particolari da Maurizio Adezio nel suo blog “Viva Miglianico”, al quale collaboro) e i pochi dati storici certi sul Castello di Miglianico, oggi più correttamente da indicare come “Dimora Storica Masci”, come ho avuto modo di precisare nella scheda su Wikipedia che ho compilato l’estate scorsa.

Questo è il risultato di questo lavoro che può essere messo a disposizione di tutti i miglianichesi e anche dei curiosi.

 

La leggenda della costruzione del Castello di Miglianico (raccolta e raccontata da Camillo Fabbucci, poeta e calzolaio di Miglianico negli anni Trenta del XX secolo)

Il giovane Diomede Valignani, come premio per le sue gesta eroiche, oltre ad alcuni feudi, tra i quali quello di Chieti, ricevette in sposa la bella Rosalba, figlia di Comneno, ultimo imperatore di Bisanzio. [L’Impero Bizantino crollò nel 1453, quindi la storia sarebbe ambientata nel XV secolo, quando sul colle di Miglianico c’era già un forte/castello almeno da quattro secoli.]

Tra di loro ci fu subito amore dolce e reciproco, una vera passione. La coppia di innamorati, dopo i lunghi festeggiamenti, viaggiò alla scoperta del nuovo feudo di Chieti. Il viaggio non era solo di carattere amministrativo. Infatti Diomede aveva promesso alla sua Rosalba di edificare il loro castello, una residenza non un forte militare, nel luogo che lei avesse scelto. Rosalba si innamorò di un colle, in bella posizione e dall’aria buona, dal quale ella vedeva il mare e tutti i campi dintorno. Era vicino alla grande Città teatina ma abbastanza lontano da poter stare tranquilli. Diomede fece costruire proprio lì il loro nido d’amore e lì andò a vivere con la sua sposa, la bella Rosalba.

La nascita di Miglianico cominciò dunque con una storia d’amore. Ma, per compiersi, questo amore dovette farsi anche dono generoso. Il castello accolse, infatti, qualche tempo dopo i cittadini della vicina Sauria o Saturia, piccola e ridente cittadina adagiata sui pendii degli odierni colli di Sauria, nella bassa val di Foro, che dovettero fuggire per evitare la strage o la schiavitù quando i Turchi di Solimano (o Solimene) invasero la nostra vicina costa. [Questa dovrebbe essere l’invasione turca del 1492, la penultima che visse il nostro territorio, visto che quella del 1566 fu guidata da Pialì Pascià.]

Attorno a quel castello, edificato per amore, si radunarono gli scampati, i profughi, ricevuti e protetti con semplice e forte spirito di accoglienza.

[Molto probabilmente c’è stato effettivamente uno spostamento di popolazione dalla pianura al colle nel XV secolo (e tra questi anche il nostro santo patrono, che arrivò nella chiesa annessa al castello proprio a fine ottobre del 1492 dopo la ritirata dei Turchi), ma questo ha generato racconti e leggende non verificate, fino ad una favola, inventata di sana pianta ma molto bella, raccontata sempre da Camillo Fabbucci che ne fece una racconto da cui fu tratta una rappresentazione teatrale, andata in scena il 13 e il 25 aprile 1980 con il titolo “Gli ultimi giorni della città di Sauria”.]

Gli ultimi giorni della città di Sauria”, è ambientato appunto a Sauria, città che doveva sorgere all’incirca ai “Colli di Catalano”, lì dove il ponte dell’autostrada si congiunge con la collina di Tollo.

Il racconto lo fa una giovane dama di compagnia della principessa Gilda, figlia del Marchese di Biancofiore e promessa sposa di Manlio, figlio del principe di Sauria, della stirpe dei Bocca d’Oro. Quando la minaccia dei Turchi si fa pericolosa per la città Manlio, contro il volere di Gilda, tenta un disperato assalto ai nemici senza aspettare che Giorgio, capitano dei guerrieri del castello di Diomede Valignani, arrivi con i rinforzi richiesti dal principe. Il tentativo viene sventato e i Turchi massacrano i soldati di Sauria, uccidendo il giovane Manlio. Quando la notizia arriva nella città impaurita, Gilda impazzisce dal dolore e gli abitanti fuggono davanti all’arrivo dei Turchi che distruggono Sauria, lasciata abbandonata. Intanto Giorgio arriva con i rinforzi, ma può solo difendere gli abitanti in fuga e scortarli fino alla collina dove si insedieranno e visto che essa dista un miglio terrestre dalla città di Sauria, il nuovo paese prende il nome di Miglianico.

Cosa si può ricostruire con certezza della storia del castello di Miglianico

Il Castello di Miglianico molto probabilmente, al pari di molti altri castelli che sorgono alla cima delle colline lungo la costa adriatica, viene costruito come rocca difensiva e di osservazione a partire dall’XI secolo, come testimoniavano alcuni resti di conci (mattoni per il tetto) che furono poi distrutti nella Seconda Guerra Mondiale. Questo era il periodo in cui i Normanni iniziano la loro penetrazione nel Sud Italia: sono infatti normanni i primi certi abitatori del castello, che si chiamava Mellianum, feudo provvisto di tre militi, uno dei quali era un certo Riccardus Trogisii, esponente di spicco di un ramo di una famiglia normanna venuta in Abruzzo al seguito di Roberto di Loretello e sub feudatario di Boemondo, conte di Manoppello. Il castello fu ricostruito nel 1515 dalla famiglia dei Baroni Valignani che aveva ricevuto in feudo il paese, ed è rimasto nelle sue condizioni originarie (basta vedere qualche cartolina degli anni Trenta che mostra un castello fatto di merli e torri, tipica costruzione del Cinquecento italiano), fino alla Seconda Guerra Mondiale, durante la quale fu pesantemente bombardato.

Dopo la guerra, la famiglia Masci, che aveva in proprietà il Castello, ormai ridotto a poco più che macerie, ha pensato di ricavare dalle mura antiche che erano rimaste in piedi una dimora signorile, chiamando nel 1950 due tra i più famosi architetti italiani del tempo, Francesco Bonfanti e Gio Ponti, che ricostruiscono la dimora con l’idea di mettere su un “castello moderno”. Vengono usati per il nuovo castello gli stessi mattoni delle macerie del vecchio, ma le finestre sono in alluminio moderno. Ricostruite le piccole torri, esse diventano camere e studi privati; all’interno si aprono piccoli cortili, spazi interni di distribuzione concepiti come piazze coperte e vi è presente un giardino pensile. Ogni pavimento è stato ridisegnato appositamente con intrecci di pietra, cotto e ceramiche napoletane.

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