Giornalismo

 

In questa sezione del mio sito, vorrei offrire un po’ qualche saggio degli articoli e delle pubblicazioni che ho realizzato nella mia “prima vita” professionale: sono i “pezzi” che ritengo siano particolarmente significativi nella mia storia di giornalista, che principalmente è fatta di molti testi dal breve respiro (quello, appunto, di un quotidiano), ma che ha anche avuto diversi spunti interessanti.

Comincerei questa pagina con la mia “tesina” presentata l’11 novembre 2008 all’esame professionale dell’Ordine dei Giornalisti, che ha preso spunto da un articolo pubblicato su “Il Tempo”, nella pagina dedicata alle tradizioni regionali, il 17 gennaio 2007, dove raccontavo dei riti culinari legati a Sant’Antonio Abate.

 

LA TRADIZIONE DEL MAIALE IN ABRUZZO

Quando l’Accademia Italiana della Cucina, benemerita istituzione culturale della Repubblica italiana, fondata da Orio Vergani nel 1953, ha deciso il tema della «Cena ecumenica» 2008, che riunisce gli accademici di tutto il mondo alla stessa ora nello stesso giorno, i delegati abruzzesi sono stati di certo i più preparati a rispondere all’appello della presidenza nazionale: il 16 ottobre scorso, infatti, si è celebrato in tutto il mondo la cucina con la carne di maiale, che costituisce una presenza costante nel corso dei secoli, non solo sulle tavole, ma anche nella tradizione popolare della terra d’Abruzzo.

«I nostri contadini – ricorda il gastronomo Giovanni Goria, oggi vicepresidente dell’Accademia Italiana della Cucina – allevavano il proprio maiale con lo stesso amore con il quale si mandava a studiare il figlio da ragioniere»: questo non solo per il comune adagio popolare secondo cui «del maiale non si butta via niente», ma anche perché il suino è un elemento fondamentale della cultura contadina d’Abruzzo, che lega al porco riti e cerimonie che affondano le loro origini ai secoli del paganesimo.

Con la fine delle feste di inizio anno, infatti, e il ritorno alle attività ordinarie, scocca, in tutte le campagne abruzzesi, l’ora del sacrificio del maiale, un rito che pone al centro il suino che rappresentava fin dall’antichità uno degli animali più sacri (del resto, il suo nome viene ricollegato a Maia, l’onorata ed amata divinità romana della fecondità, il cui nome riecheggia nella Majella, la catena montuosa che domina la parte meridionale d’Abruzzo). Neppure l’avvento del cristianesimo sradicò questa tradizione mistico-contadina che, come si registra di frequente quando si parla di religiosità popolare, si amalgamò con il nuovo culto, che ha collegato il maiale con uno dei santi più venerati della cristianità, la cui memoria liturgica si celebra il 17 gennaio, in corrispondenza con il periodo dell’uccisione «sacrificale» dell’animale: sant’Antonio abate.

«L’uccisione del maiale – racconta Mimmo D’Alessio, delegato regionale per l’Abruzzo dell’Accademia Italiana della Cucina – abbisogna di un’attenta programmazione astronomica e climatica: bisogna prestare attenzione alla posizione della luna ed anche alla nebbia o al vento che sono nemici temibilissimi. La sua morte, inoltre, deve essere la meno cruenta possibile: un colpo netto di un tagliente ed appuntito coltello, infilzato nell’arteria della carotide, in pochi istanti fa passare a miglior vita l’amato quadrupede. Le fasi di lavorazione successive, frammiste di tragico e festaiolo, prevedono la bruciatura della peluria che una volta era effettuata con delle canne secche accese ma che oggi, meno romanticamente ma con più efficienza, è fatta con una fiamma ossidrica. Il maiale, sbarbato, viene lavato abbondantemente con dell’acqua bollente e quindi, spaccato sulla linea della ventre, è messo ad asciugare al fresco a testa in giù. Dopo un giorno o due di frollatura della carne il maiale viene sapientemente spezzato nelle sue parti per consentirne gli usi della cottura e della conservazione. Bistecche, filetto, zampetto o zampone o più volgarmente piedi di porco, salsicce di carne o di fegato che potranno essere consumate cotte o anche crude dopo una non troppo lunga stagionatura. È la volta, quindi della cotenna dei lombi del lardo, dello strutto del sangue, che è usato per fare il “sanguinaccio” e quindi dell’insaccatura del capocollo e dei salami che saranno assaporati dopo una stagionatura che durerà fino a Pasqua. Infine il prosciutto, che abbisogna di una stagionatura più lunga e che accompagnerà il fortunato proprietario per tutto l’anno».

Secondo l’accademico, il maiale è senza dubbio l’animale più “miracoloso”: «Al momento del trapasso – spiega – avviene il primo miracolo: il sangue che esce in abbondanza, appena rappreso, soffritto con un po’ di cipolletta, diventa il primo gustoso alimento che ci offre. Poi le spuntature ci consentono di preparare un cif e ciaf che ripaga immediatamente il proprietario del porcello ed i suoi amici dalle fatiche del consumato sacrificio. Qualche bicchiere di buon vino, il prosciutto di maiale ucciso nell’anno precedente, sagne fatte in casa condite con i fagioli ed i dolci anch’essi di fattura casalinga fanno da completamento alimentare alla festa che dura un’intera giornata».

L’aspetto di festa che il «sacrificio» del maiale comporta nella tradizione contadina abruzzese è quello che si ricollega più strettamente al rito degli antichi romani, che celebravano l’inizio della primavera, alle calende di maggio, con una grande cerimonia che aveva il suo culmine nel sacrificio di una scrofa gravida alla dea Maia, che rappresentava il rifiorire del mondo nella fertilità primaverile. Proprio in contrapposizione alla grande importanza che aveva l’animale nelle culture pagane, il maiale divenne un tabù per le grandi religioni monoteiste: per ebrei e musulmani è un animale proibito (forse anche perché, essendo queste religioni praticate in Paesi con temperature e climi molto caldi, con il consumo della carne di maiale si sarebbero moltiplicati i problemi di ordine sanitario), mentre il cristianesimo ha icasticamente identificato il demonio e il male nel mite porcellino (che infatti, ai piedi delle statue di sant’Antonio abate, sta a significare la vittoria dell’eremita sulle tentazioni).

Tanto è legato il maiale all’Abruzzo che proprio nella regione è sorto, nel dicembre del 2006 (ma aperto al pubblico solo dal 2 febbraio scorso), un museo tutto dedicato a lui, unico nel suo genere al mondo: è situato a Carpineto Sinello, piccolo borgo pedemontano del Medio Vastese, al centro del «distretto della ventricina», tipico salume piccante esportato in tutti i continenti. Al suo interno si narrano le «gesta» del mite animale e la sua importanza nella cultura e nella tradizione abruzzese; non manca, ovviamente, una sezione dedicata alla degustazione.

Nel congedarci, Mimmo D’Alessio ci offre una delle sue battute folgoranti, che ricordano come il maiale sia l’animale che più si è tenuto al riparo da forme di contaminazione o di alterazione: «Abbiamo avuto il problema della pecora folle, della mucca matta e abbiamo vissuto anche il dramma del pollo squilibrato. Dio salvi il porco!».

 

Una delle cose che più amo raccontare sono le tradizioni locali, specie quelle del mio paese. Il 6 agosto 2010 ho la possibilità di raccontare su “Il Tempo” una credenza popolare molto particolare di Miglianico.

 

L’ANTI-VIAGRA VIENE DA MIGLIANICO ED È LA “RIBOLLATURA” DI SAN PANTALEONE


MIGLIANICO Problemi di fertilità? Qualche disturbo all’apparato riproduttivo maschile? Timori per la propria virilità? La soluzione è fare un viaggetto a Miglianico.
Non è lo slogan di una nuova fantomatica cura per i problemi maschili, ma ciò che da secoli accade nel santuario di San Pantaleone, che sorge in cima al colle più alto della cittadina: è l’antica tradizione della «ribollatura», che vedeva fino a qualche lustro fa protagonisti gli uomini dei paesi vicini a Miglianico, che giungevano a gruppi, a partire dal 27 luglio, giorno della festa patronale del medico e martire di Nicomedia, per chiedere la grazia di conservare in buona salute le «parti intime».
Per sottolineare questa speciale devozione, che si era consolidata nel tempo e che vedeva il santo taumaturgo particolarmente benevolo con il genere maschile, fino a trent’anni fa era frequente imbattersi, all’interno del santuario, in sospensori donati a San Pantaleone come ex-voto per grazia ricevuta.
Il nome «ribollatura» è un termine scherzoso coniato dai miglianichesi, che essendo i «concittadini» del santo medico non avevano bisogno di chiedere «quella» speciale grazia, poiché garantiti a vita dal patrono, indicavano ai fedeli degli altri paesi la necessità di tornare a Miglianico per ottenere un nuovo «bollino» che li tenesse al riparo da certe «défaillances» per un anno intero.
Da qualche anno, l’Accademia Italiana della Cucina di Chieti, guidata da Mimmo D’Alessio, ha ripreso l’antica tradizione e, dopo una devota visita al santuario di San Pantaleone e la rituale «ribollatura» (che consiste nella preghiera davanti al santo di cui viene toccata devotamente la statua rigorosamente nelle «parti basse»), invita tutti a tavola per una cena a base dei prodotti tipici del paese.
Quest’anno c’è stata una novità: il presidente nazionale della Confederazione dei Pasticceri Italiani, il miglianichese Federico Anzellotti, ha presentato agli accademici un nuovo dolce, «la bolla», delicato pan di spagna alle mandorle con crema leggera e passata di marasca, inventato da lui e dedicato proprio a questa tradizione.

 

Il mio è un mestiere che mi permette di incontrare e raccontare tante persone dal vissuto straordinario: il terremoto dell’Aquila ha portato a galla numerosi racconti di vita particolarissimi e toccanti, uno dei quali ho potuto raccogliere io stesso. È la storia di “nonno Terremoto”, come l’abbiamo giornalisticamente ribattezzato, trovato ricoverato a Chieti, presso gli Istituti Riuniti di Assistenza “San Giovanni Battista” il 17 aprile 2009, a pochi giorni dal sisma aquilano. L’indomani esce questo mio pezzo su “Il Tempo”:

 

Quando per la prima volta sentì la terra scuotersi a causa del terremoto, aveva già undici anni e ricorda bene il sisma che sconvolse Avezzano nel 1915, nonostante la distanza dalla casa paterna di Barisciano ed oggi, Carmine Simone, nato il 29 ottobre del 1904, porta negli occhi il ricordo di un altro tremendo sisma che lo ha investito direttamente: l’anziano, che oggi è ricoverato in buone condizioni fisiche presso gli Istituti Riuniti di Assistenza «San Giovanni Battista» di Chieti, nella notte che ha sconvolto L’Aquila era a casa della figlia, nel capoluogo, in via Collevernesco, appena fuori dal centro storico, una traversa della strada statale 17. Ha sentito il boato del terremoto, è stato aiutato ad uscire dall’abitazione, che si è salvata dalla distruzione, ha visto le case dei vicini sbriciolarsi, ha vissuto l’incubo dei feriti e dei morti, ha pensato alla casa di Barisciano, lasciata per stare insieme ai nipoti, si è preoccupato per la sua grande famiglia, che conta nipoti e pronipoti, tutti salvi. Poi, insieme alla consuocera, Concetta Sebastiani, classe 1919, ha accettato l’ospitalità delle ex case di riposo teatine. È stato direttamente il sindaco, Francesco Ricci, ad allertare il presidente del consiglio di amministrazione degli Istituti Riuniti «San Giovanni Battista», un’Ipab di proprietà pubblica, Marco Ricci, chiedendo la disponibilità di due posti letto nella struttura che oggi ospita circa duecento anziani teatini: senza la minima esitazione, medici e personale si sono messi a disposizione dei due anziani, che ora vivono perfettamente integrati nella comunità di piazza Garibaldi. Paradossalmente, è la signora Concetta, 90 anni appena compiuti, ad avere i problemi maggiori: infatti ieri mattina, quando abbiamo incontrato il consuocero prossimo ai 105 anni, lei era stata appena ricoverata presso l’ospedale clinicizzato «SS.Annunziata». Carmine, invece, tranquillo, lucidissimo, sereno ed arzillo ci ha ricevuto con educazione e sorpresa, raccontando con grande precisione l’angoscia della notte del sisma ed il sollievo nell’apprendere che tutta la sua famiglia stava bene; ha stretto la mano di Nestore Tomeo, vicepresidente degli Istituti Riuniti, che lo tiene in gran cura, preoccupato l’età del «nonnino del terremoto», per significare il ringraziamento a tutto il personale. Sebbene a Chieti abbia alcuni nipoti, il suo pensiero va a L’Aquila e soprattutto alla sua casa di Barisciano, di cui non sa nulla, e quando gli chiediamo cosa farà una volta tornato nella sua terra, con una forza straordinaria ed una calma invidiabile ci confida: «E che devo fare? Ricomincerò». Tuttavia, il ritorno di Carmine nella sua casa è ancora lontano, occorreranno settimane, prima per verificare lo stato delle abitazioni di famiglia, che non sono crollate ma sono state lesionate, e poi per approntare i necessari lavori di consolidamento. Per ora si lascia coccolare da medici, assistenti sociali, animatori ed anche dai vecchietti ospiti della struttura di piazza Garibaldi, dei quali può essere il fratello maggiore, se non addirittura il papà: e come un buon papà si lascia interrogare, racconta, rassicura. Ma i suoi occhi sono ancora tra le macerie di L’Aquila e soprattutto il pensiero è per le tante persone che ha lasciato sotto le tende.

 

Unica in Italia, a San Martino sulla Marrucina, piccolo Comune pedemontano in provincia di Chieti, di cui sono stato addetto stampa, si celebra ogni terza domenica di gennaio una tradizione ormai scomparsa, quella dei “Santi Sposi”. Questo è il comunicato stampa che ho emesso in occasione dell’edizione 2009:

 

COMUNICATO STAMPA
Unica in Italia, venerdì si rinnova a San Martino sulla Marrucina la tradizione dei “Santi Sposi”

San Martino sulla Marrucina, 21 gennaio 2009

Una vera e propria festa di nozze caratterizza una delle tradizioni più sentite dalla comunità di San Martino sulla Marrucina: a “sposarsi”, ogni anno, sono la statua di San Giuseppe e quella della Vergine Maria, che santificano la loro unione ai piedi dell’altare e benedicono così tutte le nozze celebrate in paese e tutte le coppie di coniugi.

Viene da molto lontano la tradizione dei “Santi Sposi”, che la Chiesa un tempo celebrava il 23 gennaio di ogni anno, data tradizionale dello sposalizio di Maria e Giuseppe a Nazaret, ma che oggi viene celebrata la domenica successiva a Natale, nella nuova liturgia della Sacra Famiglia.

In paese, nonostante la riforma del calendario liturgico introdotta dal Concilio Vaticano II, i “Santi Sposi” vengono ancora celebrati nella data tradizionale con una cerimonia solenne a cui prendono parte tutti i coniugi del paese che processionalmente, abbigliati nei tradizionali costumi locali, raggiungono la chiesa parrocchiale, nella quale vengono sistemate una accanto all’altra le statue di San Giuseppe e della Madonna, ai piedi dell’altare, come se davvero fossero davanti a Dio per celebrare il loro matrimonio.

La celebrazione eucaristica si svolgerà nella chiesa parrocchiale venerdì mattina alle 10.00 e sarà seguita dalla tradizionale processione che sfilerà per tutte le strade del paese, organizzata dalla Confraternita dedicata a San Giuseppe: nel corso del corteo gli sposi del paese doneranno confetti a tutti i partecipanti come segno di augurio e di condivisione della gioia del matrimonio.

«La festa dei Santi Sposi – ha spiegato il sindaco, Settembrino Giandonato – segna l’inizio, dopo la conclusione del periodo natalizio con le celebrazioni dell’Epifania, della serie di feste religiose e popolari di cui San Martino sulla Marrucina, fedele alla sua tradizione agricolo-pastorale, è piena. Quella dei Santi Sposti è una tradizione unica in Italia che distingue il nostro paese e che costituisce perciò la più importante manifestazione di fede popolare che il nostro territorio presenta».

 

Pochi giorni prima, per un altro Comune di cui curavo l’ufficio stampa, Bucchianico, ben più noto in quanto paese natale di San Camillo de Lellis, potevo raccontare un’altra bella storia in forma di comunicato stampa:

 

COMUNICATO STAMPA
Ottant’anni, è l’unica tessitrice ancora in attività ed è stata nominata Cavaliere del Lavoro: festa domani a Bucchianico per Leonella Di Nardo

Bucchianico, 10 gennaio 2009

Una vita passata davanti al telaio e una manualità che non ancora viene meno, nonostante le 80 primavere: Leonella Di Nardo, classe 1928, conosciuta da tutti come «la bucchianichesa», è stata di recente nominata dal Presidente della Repubblica Cavaliere del Lavoro e domani mattina la sua cittadina la celebra con una grande festa.
La storia di Leonella, che ancora oggi raggiunge i vari mercati cittadini guidando senza problemi il suo furgoncino, è un’incredibile avventura di forza e di passione: sposatasi nel 1950, il marito fu costretto due anni dopo ad emigrare in Venezuela a causa della disastrosa situazione economica del dopoguerra. Con un bimbo di un anno da allevare, Leonella si dà da fare e, rinnovando gli insegnamenti di mamma Caterina, anch’ella provetta tessitrice, inizia a lavorare al telaio e porta le sue creazioni per la prima volta al mercato settimanale di Vacri. Qui la sua capacità è molto apprezzata ed in breve tempo diventa ricercatissima grazie alla sua bravura: per tutti diventa «la bucchianichesa», che dal lunedì al mercoledì girava, mattina e pomeriggio, per i mercati della zona e gli altri giorni andava per le case private di tutta la zona (Miglianico, Ripa Teatina, Francavilla, Villamagna, Vacri, Casalincontrada) a raccogliere le ordinazioni, soprattutto per i corredi nuziali, che sono sempre stati la sua specialità.
Quando il marito torna dal Sudamerica, nel 1957, Leonella aveva già una piccola impresa familiare che dava lavoro a 20 operaie e, in accordo con il consorte, il 9 settembre 1958, chiede e ottiene la licenza commerciale. Inizia così un vero e proprio periodo d’oro che ha il suo culmine negli anni Settanta, quando, per far fronte alle richieste sempre più pressanti, che ora arrivano anche dagli emigrati di oltre oceano, la ditta «Tessuti Di Lillo» acquista ben 16 telai meccanici.
Dal 1953 la signora Leonella non ha mai smesso di esercitare la sua arte, che mette anche a disposizione per diverse manifestazioni, in primis i Banderesi, poi è una presenza fissa nela Presepe Vivente di Chieti e in quello analogo di Villamagna. I figli hanno creato una delle aziende tessili più importanti della regione, ma si sono concentrati nella vendita del prodotto finito, mentre lei tesse ancora come un tempo. Il cruccio della neocavaliere è quello di non poter trasmettere la sua perizia a qualche giovane di oggi, anche per la mancanza di luoghi adatti per impartire le nozioni tecniche fondamentali.
Di andare in pensione, «la bucchianichesa» non ha proprio intenzione: nella sua piccola casa di contrada Pantanella, continua a lavorare su commissione e continua ad andare ai mercati settimanali dei vicini paesi, utilizzando da sola il suo furgoncino. Il 2 giugno scorso è stata nominata Cavaliere del Lavoro e domani mattina alle 10.00, in piazza Roma, la cittadinanza di Bucchianico le si stringerà attorno per festeggiarla: corteo ufficiale fino alla chiesa di Sant’Urbano, messa di ringraziamento, saluti del sindaco, Mario Antonio Di Paolo, che ha organizzato in ogni minimo particolare la cerimonia, e un grande pranzo offerto in un ristorante cittadino.