Come finisce un rapporto di 22 anni: “Il Tempo” chiude e liquida con una lettera. Asettica

Al mio ritorno, ieri, dai 62 giorni di ospedale di questa estate, la gioia per l’aver ritrovato le cose di casa ed il sollievo per l’auspicata fine di un periodo travagliatissimo si è in parte dissolta all’apertura di una raccomandata con ricevuta di ritorno che giaceva da qualche giorno sul mio tavolo.

Lettera licenziamento Il Tempo

Una “lettera di licenziamento”, praticamente.

Una lettera che interromperà il 31 ottobre prossimo un rapporto che è iniziato nel 1992, quando a 17 anni ho iniziato a scrivere i pezzi delle partite del Miglianico Calcio ogni domenica e che si è ufficializzato il 31 agosto 1993 con il primo contratto di collaborazione coordinata e continuativa, che mai in questi vent’anni si è trasformato in un’altra, seppur minima, opportunità, nonostante che da oscuro corrispondente sportivo di paesi dell’hinterland chietino, piano piano sono diventato “ragazzo di redazione”, specie d’estate, poi “specializzato” in alcuni settori di mia competenza esclusiva (università, mondo religioso), poi “promosso” a notista politico ed esperto di cronaca amministrativa e, via via che i vari stati di crisi che hanno accompagnato gli ultimi anni della vita del giornale portavano via colleghi o per prepensionamento o per ridimensionamento, sempre più “cronista unico” della città di Chieti e dintorni, fino a diventare una specie di “tuttologo teatino”.

Se non fosse per l’affetto che ho per “Il Tempo”, in cui sono cresciuto professionalmente grazie a colleghi “maestri” di grande sensibilità e capacità umane prima che professionali, sarei davvero molto più caustico oggi, e me lo potrei pure permettere visto che la lettera di “licenziamento”, sebbene mi strappi il cuore, non cambia la mia situazione professionale, che da un mese e mezzo è approdata in altri lidi lontani dal giornalismo (con rammarico per i miei sogni, con sollievo per il mio portafogli e la mia sicurezza futura).

Ma per me “Il Tempo” non è quello di questa lettera asettica, modellino precompilato ed inviato a tutti i collaboratori, indistintamente (quelli “storici” come quelli da poco approdati in redazione), ma è quello di Giampiero Perrotti, mio primo caposervizio, che mi ha letteralmente “iniziato” alla professione, che correggeva ogni refuso ed ogni riga, che rileggeva fino alle 23.00 ogni articolo prima di dare il via libera alla redazione, che tracciava con righello e matita il menabò della pagina; quello di Peppino Vincolato, che mi portava con sé nelle pause pranzo e mi spiegava le dinamiche della città, che mi invitava a passeggiare con lui tra le vie di Chieti per cogliere anche i piccoli segnali di vita “reale” da raccontare poi sul giornale, che mi insegnava a non prendersi troppo sul serio come “paladino della verità e della giustizia”, idea romantica del giornalista che a vent’anni coltivavo anch’io; quello di Massimo Pirozzi, “terribile” caporedattore regionale, capace di farti una sfuriata a pomeriggio inoltrato e farti rifare da capo il pezzo che ti aveva “miracolosamente” commissionato per la prima o le pagine regionali, nonostante fossi un “giovane collaboratore”, salvo poi chiamarti per farti i complimenti e dirti che aveva dovuto urlare “per insegnarti che significa lavorare bene”; quello dei tanti redattori e capiservizio con i quali si è costruita una vera “famiglia”, quella de “Il Tempo”, che a fine estate si riuniva nel giardino interno della redazione di Chieti per la festa insieme, dove trovavi l’oscuro collaboratore dell’Alto Vastese e il caporedattore regionale: da Adriano Ciccarone, l’esperto di Sanità, ad Alfredo D’Alessandro, “principe” della cronaca, da Valerio D’Ettorre, il fotografo che era un segugio per i “buchi” che regolarmente davo agli altri giornali, a Patrizia Pennella, che mi ha instillato la giusta dose di levità ed è stata ed è insuperabile organizzatrice di mille diversivi, da Luciano Di Tizio, che mi ha inculcato metodo e cura dei particolari, a Marco Patricelli, che mi ha indicato come andare anche sopra le righe, da Franco Avallone, che mi ha sempre dato fiducia soprattutto nei miei pastoni di politica, a Lorenzo Verrocchio, ultimo in ordine di tempo dei miei capiservizio, con il quale ho potuto sperimentare una condivisione come da pari a pari dell’universo giornalistico. Di nomi di collaboratori, colleghi e a volte anche amici, ne potrei fare a iosa, ma rischierei di dimenticarne qualcuno: quel che conta è che “Il Tempo” è stato davvero una famiglia, nonostante l’inglorioso congedo che ha riservato a me e a tutti coloro che hanno dato la vita per una testata che fu grande ed autorevole e che, almeno nel dorso regionale Abruzzo, ha sempre conservato una certa tradizione ed una certa attrattiva. Tant’è vero che, casualmente, è stato l’ultimo dorso a sparire, facendo emergere anche la falsità di quanto affermato nella lettera di “congedo”: “L’Abruzzo da un punto di vista commerciale è apparso sempre complicato”. Ma quando mai? Piuttosto è stato il serbatoio pubblicitario, grazie all’autorevolezza di una classe di redattori e di collaboratori cresciuti ad una vera scuola di redazione, di tutto il giornale che, oggi, lo butta via dopo averlo svuotato di risorse e di contenuti (la progressiva riduzione delle pagine del dorso, prima, la sparizione delle pagine provinciali, poi, l’assurda divisione “mare” e “montagna” che confondeva i lettori, infine).

Che fine faranno i tanti colleghi che hanno lavorato per tanto tempo e con tanta passione? I contrattualizzati andranno in cassa integrazione a zero ore, disperdendo un patrimonio di professionalità non indifferente, ma loro non me ne vorranno se io mi ricordo soprattutto dei collaboratori, che nel frattempo sono stati ridotti a poco meno di venti (ne eravamo una settantina, la vera potenza de “Il Tempo”): loro che fine faranno? Stavolta non posso dire “noi”, visto che da un mese e mezzo ho intrapreso altre strade, ma mi sento ovviamente molto molto molto vicino a loro, molti dei quali sono al giornale da oltre dieci anni e ricavano la loro principale fonte di sostentamento dallo stipendio (per modo di dire) de “Il Tempo”. Loro, ossia i collaboratori, i precari, gli sfruttati, coloro che “reggevano” il giornale (e reggono come categoria la maggior parte delle testate italiane), hanno solo poche righe, neppure personalizzate, in cui si comunica loro la cessazione della collaborazione. Ma la cosa più comica sta nella chiosa “I nostri uffici provvederanno a liquidarle le spettanze…”: in un’azienda dove negli ultimi dieci anni si sono accumulati ritardi su ritardi nei pagamenti dei collaboratori e dove siamo riusciti ad avere qualcosa solo con un’azione giudiziaria, sarebbe paradossale (e lo sarà) che proprio alla fine, quella stessa azienda sia puntuale nel pagamento… quasi una liquidazione! Cinqueuronetti, la rete dei precari, freelance e collaboratori abruzzesi ha richiamato già tutto il mondo giornalistico a questa dura realtà con un comunicato diramato all’indomani della diffusione della notizia della chiusura dell’edizione Abruzzo.

Ultimo accenno, ovviamente polemico, al sindacato (o presunto tale): ci si viene a dire che non c’era e non c’è nulla da fare, la ristrutturazione aziendale permette queste manovre a danno dei lavoratori… Oggi sì, ok, ma ricordo distintamente che nel 2010, quando nel direttivo dell’Assostampa Abruzzo c’ero anch’io, già si vociferava con una certa insistenza della possibilità della chiusura della redazione abruzzese de “Il Tempo”, anzi addirittura si dava per la primavera del 2012 tale evento per certo. Allora: se già quattro anni fa il rischio era concreto, cosa ha fatto il sindacato in questo lungo periodo di tempo? Quello che sa fare meglio: dormire. E a parte l’assistenza sul caso dei compensi pregressi (che va ascritto, ad onor del merito, all’Assostampa), che è stata gradita, ma che ha lasciato il tempo che ha trovato, cosa si è fatto di strutturale? Nulla. Del resto, anche nel CdR del giornale il rappresentante abruzzese si è trovato davanti un muro di indifferenza verso la sorte dei colleghi del dorso Abruzzo da parte di coloro che dovrebbero essere l’avanguardia del sindacato in azienda.

Purtroppo, questa è la realtà, drammaticamente confermata dalla “storiaccia” (che non ho potuto commentare per motivi di salute) del contratto rinnovato e del referendum-farsa organizzato dalla Fnsi: il sindacato non esiste se non per garantire i garantiti (e dopo il contratto nuovo manco quelli) e il giornalismo come professione ormai si va estinguendo. Un altro colpo al cuore, dopo l’essere stato costretto a cambiare completamente vita ed abbandonare il sogno che avevo pazientemente costruito in anni e anni.

Ma tant’è. Addio a “Il Tempo”, la mia grande palestra di giornalismo.

6 commenti

  • anonimo

    Beh io ci lavoro da due anni (per la sede centrale) ma non ho mai visto un soldo…

  • Antonello Antonelli

    In 22 anni sono riusciti ad accumulare anche tre anni di ritardo… mi stupisco di come tu possa rimanerci ancora se non hai visto nulla ancora! O sei di quelli che scrivono solo per vedere la propria firma sul giornale (rovinando così le rivendicazioni sindacali di una intera categoria di collaboratori)?

  • Eh, caro mio prof, che posso dirti?
    Da un lato saperti finalmente a casa è consolazione che supera tutto il resto.
    Da un altro, il tempo passa e le situazioni cambiano.
    Il condiviso sfacelo professionale fa il resto.
    Restano le esperienze, i ricordi, gli insegnamenti ricevuti e messi a frutto.
    C’è chi lavora da anni senza ricevere un soldo e lo scrive pure, c’è il sedicente sindacato unitario che continua a prendere i fondelli chi gli crede (e quindi si merita le prese per i fondelli), c’è un mestiere che, non da ora, ha abdicato alle sue funzioni e resta affidato ai più tenavi, i più fortunati, i più illusi.
    In ogni caso, frange.
    Del resto, non è una novità: già mancano i giornali, anzichè gli spazi (retribuiti) sui medesimi. Imperversa il giornalismo dilettante, che taluni credono di nobilitare chiamandolo citizen journalism. Volontariato senza professionalità. Mica è un caso se in Italia siamo 130mila giornalisti, no? Todos caballeros, come al solito.
    Pensa alla ritrovata salute e alla buona sorte che, prima che fosse troppo tardi, ti ha procurato un lavoro vero.
    Tanto al resto pensa l’Fnsi.
    Ciao, S.

  • Barbara

    Ciao Antonello,
    Siamo tutti nella barca e concordo pienamente con tutto quello che hai scritto con il cuore in questa tua lettera. Ci abbiamo creduto, abbiamo rinunciato alle nostre vite per il “nostro giornale” ma non è servito a nulla. Sono rammaricata. Venti anni di lavoro che si sgretolano. Tutto riconducibile a scelte sbagliate. Speriamo che il futuro per noi sia più roseo e che i nostri colleghi non debbano mai subire questa umiliazione. A te un forte in bocca al lupo!!!

  • Mariano

    che dispiacere vedere un collega che patisce questo destino.

  • Mi dispiace per te per la malattia che ti auguro che nel frattempo ti sia guarito,in quanto al tuo lavoro,dopo tanti anni di collaborazione non hanno avuto la decenza di aspettare di essere guarito, e chiamarti per dirtelo di persona con tante scuse come da persone civili si aspetta?questa e l’Italia cioe gli Italiani dirigenti che tanto le loro tasche sono sempre piene di soldi a spese dei poveri operai che nemmeno i sindacalisti fanno il bene dei lavoratori ma soltanto di chi li paga di più,gente corrotta !!!

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