Equo compenso: i dubbi di un piccolo editore

All’indomani dell’approvazione, giustamente festeggiata, della legge sull’equo compenso giornalistico, ho ricevuto una lunga mail di un piccolo editore, che segue il mio blog, con una richiesta di chiarimenti e delle riflessioni dubbiose che meritano di essere analizzate e di essere condivise, così da aprire il dibattito sul “dopo equo compenso”, che, come già dicevo ieri, è solo un’altra delle tappe che ci porteranno ad una nuova definizione del lavoro giornalistico.

Questo è il testo del messaggio che mi è arrivato:

 

Gentile Dott. Antonelli,

Le scrivo per avere lumi sulla nuova legge sull’equo compenso che tutti i giornalisti stanno trattando in maniera (quasi) unanime con modo di fare festante.

Tuttavia, ho qualche dubbio in merito e temo sia stata resa legge una normativa che tenderà a favorire determinate caste, come quasi sempre accade in questo Paese sempre più per “vecchi”.

Le spiego brevemente il mio background: io sono un “piccolo” editore (metto le virgolette perché è eccessivo anche usare questo aggettivo) e coltivo da qualche anno questa mia passione, pur rimettendoci mensilmente qualche centinaio di Euro di tasca propria per mandare avanti la mia “creatura”. Ovviamente, non attingo dai fondi pubblici, non godo né di finanziamenti né di contributi, ma questo mi pare lapalissiano.

Venendo al dunque, leggendo il testo della legge sull’equo compenso, mi viene da chiedermi qualora essa abbia un effetto sia sugli editori che attingono dal denaro pubblico (che mi pare un aspetto congruo e coerente) sia sugli editori che non usufruiscono di questo denaro (poco coerente, anzi, molto incoerente). Mi pare infatti impossibile pensare che un “piccolo editore” come me debba corrispondere salari paritetici a quelli di un quotidiano a caso, come ad esempio Il Corriere della Sera, non le pare? Se loro godono di contributi per milioni di euro, ed io godo di un bello zero, se non i miei fondi privati, come si fa a parificare le due situazioni? Vorrei quindi capire meglio se anche io dovrò adeguarmi sin da subito a questo tariffario, oppure se, come ho capito di primo acchito, la “punizione” per chi risulta inadempiente a tale normativa sarà quella dell’esclusione dalla possibilità di ricevere i finanziamenti/contributi dallo Stato (dei quali io, ripeto, non usufruisco già ora)?

Sono d’accordo sul fatto che ci debbano essere equi compensi per i collaboratori, tutti e senza distinzioni, ma va fatto in maniera proporzionata a quella che è la forza dell’editore, altrimenti non ha senso e si favorisce la continuazione solamente di quei “poteri forti”, escludendo quindi tutte le nuove realtà che potrebbero emergere. D’altronde, editori non ci si nasce, difficilmente lo ci si diventa, sicuramente sono pochi quelli con la possibilità di mettersi al pari di colossi come Sky, Mediaset e Rai sin da subito. Proporrei quindi equi contributi: diano a me una somma, non mi tirerò indietro dal distribuirla in equo compenso, già oggi non incasso un euro dalla mia attività, non mi costerebbe niente farlo con più risorse a disposizione. Anzi, ogni euro in più che realizzo, lo investo.

Inoltre, appena ho capito il senso della legge, mi è venuto in mente un enorme dubbio: perché io, editore che attingo dal denaro pubblico, dovrei andare ad intaccare il mio bilancio e predisporre l’equo compenso per tutti i miei collaboratori, quando posso sfruttare poi la manodopera di quei “praticanti pubblicisti” che non sono iscritti all’Albo e, quindi, non sono tutelati da tale legge? Mi passi il termine, ma col cavolo che mi adeguo! Se prima avevo 15 giornalisti in redazione, di cui 10 professionisti con contratto e 5 free-lance, pagati (cifre fittizie) rispettivamente 1000E e 500E, ed i miei introiti di contributi erano pari a 20.000, quindi con un disavanzo di 7.500, non andrò certo ad abbassare questo disavanzo a 5.000, portando tutti a mille. Piuttosto, taglio 4 freelance e ne pago solamente uno con l’equo compenso, risparmio 1.500E a bilancio ed ho anche un disavanzo maggiore di 9.000E. Inoltre, so che molte testate dovranno chiudere e quindi, gioco forza, si presenteranno da me un maggiore numero di ragazzini che vorranno avere accesso all’Albo dei pubblicisti, quindi “sfruttabili”. Vede, alla fine l’effetto di questa legge non sarà altro che quello di non far avere più un posto di lavoro per quei 4 free-lance che sono stati tagliati dall’editore. Seppur si trattassero di posizioni retribuite male, adesso sono retribuite zero e non ci saranno posti altrove a cui rivolgersi, perché tra chi chiuderà e chi adotterà questo modo di fare, sarà sempre più un Paese per “vecchi”. Ah, povera Italia.

 

A questa lunga ed articolata riflessione, ho risposto con altrettanta attenzione e cura.

 

In primo luogo, la devo rassicurare: la legge sull’equo compenso, prevedendo sanzioni solo per chi percepisce contributi pubblici (escludendo dal beneficio gli editori inadempienti), rimane una enunciazione di principio, pur nobile, per chi non ne usufruisce (così come accade per quella bella legge sugli uffici stampa pubblici, la 150 del 2000 che è stata varata senza sanzioni in assoluto).

In secondo luogo, la quantificazione del concetto di “equo compenso” che dovrà essere stabilita dalla commissione creata dalla legge non sarà universale, ma relativa ad ogni tipologia di testata, come accadeva già per il vecchio tariffario dell’Ordine andato in soffitta nel 2007: l’equo compenso per il collaboratore di una testata nazionale a grande diffusione non sarà certo uguale a quello del collaboratore di una testata a diffusione locale o ristretta.

Merita, invece, un commento in più la sua riflessione sugli effetti “pratici” dell’equo compenso: la dinamica da lei descritta l’avevo già anticipata mesi fa, discutendo proprio con alcuni commentatori del mio blog su questo tema. In effetti, l’obbligo di equa retribuzione potrebbe convincere gli editori a diminuire il numero di collaboratori per poter essere in regola con la legge: un effetto che sta nell’ordine delle cose, purtroppo, ma che potrebbe avere come corollario un miglioramento della qualità del prodotto editoriale, grazie alla migliore retribuzione dei colleghi impiegati come collaboratori esterni.

Più volte, infatti, ho scritto, forte anche della mia esperienza personale, di come una retribuzione inadeguata generasse la tentazione di non approfondire le notizie, di limitarsi a riportare il puro e semplice punto di vista ottenuto tramite comunicato (fare le telefonate costa e ad un collaboratore non si rimborsano tali spese), di (addirittura) non verificare puntualmente le circostanze di un fatto (gravissima mancanza per un giornalista, che neppure una bassa retribuzione può giustificare).

Non sono invece d’accordo sulla sua previsione che indica come conseguenza dell’equo compenso la crescita dell’esercito dei “praticanti pubblicisti”, come lei efficacemente chiama coloro che puntano all’iscrizione nell’elenco pubblicisti tramite la pubblicazione degli articoli nell’arco dei 24 mesi: credo infatti che le norme sull’equo compenso porteranno ad un innalzamento della soglia minima di retribuzione per l’accettazione della domanda di iscrizione all’Ordine dei Giornalisti. Certo, questa è una materia discrezionale che dipenderà dai singoli Ordini regionali, ma credo che sia evidente che tutti si comporteranno in questa maniera.

Quello che è importante, comunque, è che la legge sull’equo compenso abbia posto un principio di legge (e non solo più esclusivamente deontologico, come è stato perla Carta di Firenze, importantissima ma inefficace sugli editori) secondo il quale c’è un minimo di retribuzione sotto la quale non si può parlare più di “lavoro” (in alcuni casi è elemosina) ma di vero e proprio sfruttamento. Non solo: l’equo compenso non permetterà più agli editori di poter reclutare “al risparmio” pensionati INPGI che, di fatto, tolgono spazio ai giovani, poiché contrattano compensi molto al di sotto della normale sussistenza (avendo già una sostanziosa pensione, non hanno bisogno di soldi), e pubblicisti “dopolavoristi” che si comportano alla stessa maniera, facendo leva sul primo stipendio percepito.

Ovviamente, ciò accadrà solo in quelle testate che ricevono contributi dallo Stato: ma una volta fissato il principio, ritengo che pian piano si vada verso un generale innalzamento delle retribuzioni, cui conseguirà ovviamente un restringimento della platea dei giornalisti al lavoro e anche la chiusura o la trasformazione di realtà editoriali che non potranno o vorranno adeguarsi. Non plaudo certo alla falcidia delle testate, ma non si può consentire a chi vuole risparmiare sul protagonista del prodotto informativo (il giornalista) e ai colleghi che scientemente si fanno sfruttare, di “rovinare il mercato”, rendendo la nostra professione più simile ad una giungla.

 

Ritengo che ci siano tutti gli elementi per una riflessione generale che spero possa analizzare in tutti i suoi aspetti le conseguenze dell’equo compenso sulla vita “pratica” dei colleghi.

Attendo contributi e riflessioni, anche perché correttamente ho avvisato il mio interlocutore che avrei reso pubblico il suo dubbio proprio per contribuire insieme ad una risposta alle sue obiezioni.

21 commenti

  • Condivido in pieno quanto riportato dal piccolo editore. Sono ovviamente a favore di una legge che sancisca e riconosca finalmente una retribuzione giusta e congrua al lavoro del giornalista, quello serio e svolto sul campo. In questi anni, ho lottato, in perfetta solitudine, contro gli editori che sfruttavano colleghi ma, cosa ancora più triste, erano anche gli stessi colleghi a voler farsi sfruttare. E ti parlo del mio territorio dove la nostra professione non è ancora riconosciuta, dai più, come un vero mestiere ma viene considerata un hobby o una passione e non è (dico una cosa forte!!!) tutta colpa degli editori. Ho lasciato giornali, anche di un certo rilievo a livello regionale, perchè non solo non riconoscevano un compenso ma neanche rispettavano la dignità della persona. Erano solo pretese quotidiane. Quindi, alla fine, ho aperto un giornale on line tutto mio, almeno so che i sacrifici in questo bellissimo lavoro li offro per me stessa ma soprattutto per la comunità in cui vivo, ovviamente senza beneficiare di alcun finanziamento pubblico. La forza di una testata di infomazione locale si può fondare solo sulle proprie risorse e, se ci riesce, su un discreto mercato pubblicitario. Cordiali saluti. AC

  • Giulio Volontè

    Condivido la risposta di Antonello all’editore. Piccolo o grande che sia il lavoro si paga. Il costo del pane e delle bollette non è in relazione alla dimensione dell’azienda per la quale lavoro.Chi vuole continuare a sfruttare i giornalisti può continuare a farlo con la complicità dei giornalisti disposti a farsi sfruttare. Solo che, rispetto ad un anno e mezzo fa, sono cambiate due cose: 1 se la testata giornalistica (stiamo parlando di testate registrate) non rispetta l’equo compenso niente contributi pubblici. 2 se la testata sfrutta i giornalisti, il direttore, il vice ed i caporedattori sono sanzionabili per violazione dellla CARTA DI FIRENZE. Riguardo alle piccole testate, non voglio generalizzare, non di tutte sentiremo la mancanza. Troppe volte abbiamo toccato con mano realtà di pubblicazioni che vivono dell’apporto sostanziale di aspiranti giornalisti o di giornalisti sottopagati mentre nelle tasche degli editori non ci finiscono pochi centesimi. Penso sia meglio che i pochi contributi pubblici e la raccolta pubblicitaria (ormai scarsa per tutti) si concentrino e facciano sopravvivere meno testate (che ovviamente daranno da vivere a molti meno giornalisti) ma sane.

  • Incollo i miei commenti su fb in sequenza:

    Ho letto. Questo editore parla di “praticanti pubblicisti” ovvero definizione impropria utilizzata da chi cerca di interpretare a modo suo le regole di accesso all’ordine. Con altrettanta chiarezza dico: e dove sta scritto che il percorso di un collaboratore di un piccolo editore debba essere discriminato rispetto al percorso di un grande editore, se a differenziare i due percorsi c’è solo la sfiga di vivere a, facciamo un esempio a caso, Grottaglie (ci è nata mia madre, non è offensivo) o Milano? Se il concetto lo ribaltiamo, vengono fuori le disfunzioni di questo settore. I percorsi devono essere uguali. Preferisco meno collaboratori ma con più diritti che tanti finti collaboratori che poi sono costretti loro malgrado a trovarsi un altro lavoro. Non condivido quindi affatto la posizione di questo editore. Perchè protegge la tentazione di quelli che amano definirsi editori ma non amano rispettare il diritto del lavoro. Sono gli stessi che a volte hanno tanti introiti dagli enti pubblici per le sponsorizzazioni. In più mi secca la sua indulgenza verso chi sfrutterà la gente. Piuttosto, questo intervento, dell’editore menzionato nel blog, al massimo svela il modo in cui ragioneranno molti giornali. Finora hanno adottato, alcuni, altri comportamenti, precarizzare di più, aumentare i collaboratori ma diminuire la loro presenza sul giornale, ed aspettarsi che si spingessero in altri settori, per poter fare altri lavori, ecco perchè lasciarli pubblicisti a loro, diabolicamente conveniva. In questo, non dovevano fare i conti con l’equo compenso. Spero che si aprano, come ho letto nella nota della Commissione Nazionale Fnsi Lavoro Autonomo, più fronti sul rispetto dei collaboratori. Buona Giornata

    Mi auguro che, in futuro, si possa diventare pubblicisti, come accadeva una volta, se partivi già da un altro lavoro e volevi scrivere delle rubriche. Gli editori invece hanno fatto di tutto per fare passare questo messaggio: prima diventi pubblicista, poi fai gavetta, poi arriverai al praticantato. Falso. Il poi è andata a finire così: vertenze per i pubblicisti part time, articolo 36, nulla di fatto per gli altri, e qualcuno è diventato freelance se ha trovato un collega tutor. Si, in futuro sarà più semplice. La zona grigia sta nel sottobosco attuale, che si allinea a quanto accaduto nel mondo del precariato degli ex giovani ormai over30under40. Saluti!

    • GiusyB

      Cara Francesca, personalmente concordo con tutto quel che dici (anche su Grottaglie, essendo io pugliese), soprattutto perché il pubblicismo altro non èdiventato se non un escamotage per non pagare e non professionalizzare i giornalisti.
      I due percorsi sono discriminati perché, salvo poche eccezioni, insieme alla differenza di reddito fra il pubblicista e il praticante, esiste una differenza qualitativa tra le testate giornalistiche.
      Posso affermare ciò con cognizione: te lo dico per via della mia lunga “gavetta” in piccole redazioni molto professionali, di testate che hanno chiuso; per aver incontrato alcuni direttori ciarlatani (coi quali mi son rifiutata di collaborare), in quanto, al di là del titolo di professionista o pubblicista, non sapevano fare il loro mestiere; per essermi laureata in giornalismo ed essere entrata nel contesto redazionale di giornalisti e dei maggiori quotidiani nazionali (come stagista oppure “osservatrice”, senza svolgere il praticantato, purtroppo) e aver visto la differenza abissale che esiste fra grandi e piccole aziende editoriali.
      Il problema dei piccoli editori, però, al di là dei casi più estremi d’incompetenza, non è la mancanza di professionalità della redazione, piuttosto, è la mancanza di mezzi!
      Giustamente la legge stabilisce che il praticantato può essere svolto nelle redazioni che comprendano: 1) almeno 3 giornalisti professionisti; 2) almeno un redattore assunto per contratto.
      Il primo requisito, evidentemente, viene considerato come sinonimo di professionalità e dovrebbe garantire, al praticante, un’adeguata preparazione.
      Il secondo requisito (quello del giornalista assunto per contratto), dal punto di vista della professionalizzazione del praticante, non ho mai capito a cosa servisse, tanto più perché, l’obbligo del rispetto del trattamento contrattuale non ricade sull’editore (che quel giornalista professionista non lo assume), ma sull’aspirante praticante (perdonatemi il gioco di parole) che, in quella testata, non avrà la possibilità di cominciare.
      Il tessuto dell’industria giornalistica, come sappiamo, è costituito da grandi gruppi editoriali (i maggiori sono 4, i più noti) e da medie, piccole e piccolissime imprese. Le ultime fra quelle quelle ricordate non hanno barriere d’accesso al mercato ma non riescono a crescere (per discutere oppure no sulla questione dei contributi all’editoria servirebbe un altro treat del bravo Antonelli), né a professionalizzare i giornalisti (non potendo assumere dei praticanti), allora: nella necessità di continuare ad esistere, tali testate ricorrono ai pubblicisti.
      Purtroppo, noi pubblicisti, non siamo dei giornalisti. Non ci è concesso il diritto di prepararci e di affrontare l’esame d’abilitazione (se non pagandoci le scuole o facendoci assumere dalle aziende editoriali che possano permetterselo); se siamo “giornalisti puri” (giornalisti nella sostanza che non svolgono altra professione al di fuori di questa); siamo condannati a restare nel limbo di un elenco riservato ai giornalisti di serie B; siamo sfigatissimi sotto tutti i punti di vista: soprattutto quando abbiamo le competenze, le utilizziamo, ma guadagniamo quanto un qualsiasi scrittore per hobby (colui che non immagina neppure che cosa possa essere la scrittura professionale).
      Finora i pubblicisti sono stati esonerati dall’obbligo dell’esame proprio perché non sono considerati dei giornalisti: l’accesso all’elenco è diretto, qualche volta è previsto un colloquio molto elementare (su nozioni di educazione civica e di deontologia) il cui esito negativo non mi pare che vincoli la decisione della commissione di ammettere oppure no l’aspirante pubblicista.
      L’impostazione gerarchica e corporativa dell’ordine (che non è fascista, come molti credono!) ha stabilito che il praticantato debba essere retribuito (nel rispetto dei diritti sindacali del praticante): dunque l’accesso è vietato a tutti coloro che non riescono a svolgerlo in quei gruppi editoriali maggiori che, al di là del livello di professionalità delle loro testate, dominano il mercato.
      Io personalmente credo che, smontando questo monopolio, si curerebbe il giornalistificio. Anche perché, se l’accesso alla professione fosse basato su competenza, conoscenza e merito (devi possedere almeno una laurea specialistica in giornalismo/master e devi aver superato brillantemente esami abilitanti, altrimenti vai a fare il pubblicista, perché vuol dire che quella giornalistica non è la professione alla quale vuoi dedicarti), molti pubblicisti (o aspiranti) ti assicuro che…si tirerebbero indietro…

      • GiusyB

        …e comunque, sulla questione dei compensi degli aspiranti pubblicisti: gli ordini stabiliscono il numero minimo degli articoli da pubblicare in un biennio e il compenso dovuto.
        Quel che, purtroppo non capisco è: perché, a parità di compenso, esistono editori che pretendono centinaia di articoli dal collaboratore?
        Mi spiego: l’ODG della mia regione, all’aspirante pubblicista chiede un compenso biennale di 5 mila euro ed un numero minimo di 80 articoli pubblicati.
        Io mi sono iscritta all’albo dopo aver dimostrato di aver ricevuto un compenso di circa 5.200 euro, per 81 articoli pubblicati.
        Ciò significa che, per ogni articolo (notizia breve o servizio), avevo guadagnato mediamente 63 euro “a pezzo”.
        Allora, perché, ora che sono una pubblicista, dovrei accettarne 5, o 8, o 12, mentre l’iscrizione d’ufficio al registro dei praticanti mi viene negato perché non riesco a guadagnare abbastanza in un anno?

  • Alessandro Mantovani

    E’ vera una cosa. La promessa di un tesserino (da pubblicista) invoglia molti ed è alla base di 1000 sfruttamenti e veri imbrogli che hanno l’effetto di ingigantire l’elenco pubblicisti. Si era parlato, è riemerso anche nell’ultima riunione dell’Osservatorio Precariato del Cnog il mese scorso, di un “bollino” da attribuire a chi inizia il percorso biennale che porta all’iscrizione all’Ordine. Si tratterebbe in sostanza di tracciare dall’inizio il percorso “professionale” del candidato. E’ un tema su cui si può riflettere ma che per me potrebbe avere effetti positivi su quella che troppo spesso è una zona grigia. E’ anche un tema complesso. Si può in quest’ambito prescidere dalla Carta di Firenze e dall’ equo compenso trattandosi comunque del percorso che porta all’ingresso nell”Ordine dei Giornalisti? Il bollino non coinvolgerebbe almeno due istituzioni di categoria, ossia Ordine e Inpgi? Ho una visione molto rigorosa di un’eventuale “bollino”. Mi rendo conto che farebbe chiudere molti “pubblicistifici”, sia persone fisiche che realtà “editoriali”. Sarebbe un male? Molti nemici, molto onore 🙂

  • Francesco Blasi

    Il piccolo editore ha delineato il perfetto identikit dell’azienda fuori mercato. Che si regge sulla “passione” dell’editore. Ne consegue che debba cercarsi unicamente “appassionati” come lui: dopolavoristi e pensionati volontari -e privi di titoli validi e di qualunque aspirazione nel settore giornalistico- che preferiscono, bontà loro, una redazione al circolo delle bocce, al bar dove si gioca a tresette o al duo poltrona-tv con dolby surround.

    E dove c’è la passione non si può parlare di compenso, tantomeno equo. L’unico pedaggio che la legge richiede per un tale prodotto di passione è un equo compenso al direttore responsabile. Se poi lo si volesse assumere a prescindere, tanto meglio. Tutto sommato un bel risparmio, visto che il nostro piccolo editore mette avanti che la sua attività non produce denaro e dunque non entra nel circuito della concorrenza. Contento lui di rimetterci, non vedo cosa potremmo dire noi.

    Il nostro, poi, confonde la legge sull’equo compenso con una legge sul contributo pubblico agli editori. Non è così, come ben spiegato da Antonello.

    Ma il piccolo editore cerca anche di comunicarci velatamente il suo timore che la nuova legge smantellerà il grande party dello sfruttamento di speranze e energie giovani. Se così è, significa allora che la sua passione c’entra ben poco. E che anzi siamo in presenza di una delle tante realtà piccoloeditoriali con ambizione di farsi strada nel mercato a gomitate sulle parti basse. E questo non va bene.

    Del resto, mettere avanti a ogni pie’ sospinto di essere dopotutto “piccoli e neri” (e poveri) può, in generale, adombrare un lupo travestito da pecora. Del resto, si informi il nostro interlocutore: il contratto di lavoro dei metalmeccanici, per esempio, nel suo impianto-base è il medesimo sia che si parli di Fiat, sia che si parli della piccola officina di tornitura dietro l’angolo di casa mia. Gli scostamenti salariali, messi a confronto, risultano tutto sommato modesti.

    E qui è bene sfatare un pericoloso mito messo in giro da improvvisati aedi del libero mercato: In cui la concorrenza agisce tra le aziende, non tra i lavoratori. I lavoratori rappresentano (o rappresenteranno, quando l’Italia avrà fatto piazza pulita dell’immondizia introdotta dal famigerato “pacchetto Treu” che ha favorito disoccupazione e povertà) un costo fisso, esattamente come le forniture e le spese di esercizio. E’ più bravo degli altri l’imprenditore che guadagna di più senza truccare sulle voci di uscita. E’ il mondo reale, questo, caro piccolo editore.

    Ne consegue che anche l’editoria (per chi finge ancora di ignorarlo) è un settore dell’economia reale. Chi vuole entrarvi deve inserire nel piano aziendale innanzitutto il costo del lavoro al pari delle altre spese. La legge sul compenso equo può quindi essere vista (nel nostro settore) come l’inizio di una risposta alla deriva economica da terzo mondo che prende piede anche da noi da un ventennio a questa parte. Per converso, chi vi si oppone (anche fingendo di pietire sconti e esenzioni) è davvero “vecchio” e merita di vivere in un Paese di vecchi e miserabili.

    E’ invece raccapricciante la velata minaccia: anziché piegarmi a pagare equamente, vedrete che aggirerò l’ostacolo reclutando “praticanti pubblicisti” (figura inesistente, segno che la “passione” fa volare alto, ma non produce la conoscenza dell’abbiccì del settore in cui si opera). In realtà è un atteggiamento tafazziano come pochi, dal momento che con manodopera acerba non si va da nessuna parte. Ed ecco spiegato non soltanto perché in Italia ci sono sempre più scrittori che lettori, ma anche perché ci sono sempre più “editori” (spesso sedicenti) senza un mercato.

  • Il mio è un caso molto particolare: sono un giornalista professionista che ha messo in piedi un progetto editoriale gestito a mo di “cooperativa” (io non prendo un euro e i miei collaboratori tutto quello che posso dare loro). L’equo compenso, a mio avviso, nasconde parecchie ipocrisie e contraddizioni. Soprattutto, nasconde una lacuna clamorosa e grave: non considera le testate online che non ricevono contributi…praticamente la maggioranza.
    Ecco comunque il mio intervento
    http://www.you-ng.it/news/lavoro-e-universita/item/5066-lequo-compenso-liberer%C3%A0-i-giornalisti-dalla-schiavit%C3%B9?-e-una-bella-favola.html

  • GiusyB

    Avevo pensato il mio commento per un altro articolo di Antonelli ma, poiché interessa varie questioni, lo inserisco qui:

    concordo con Francesco Blasi quando afferma che il mercato è un’astrazione. Sul piano dell’occupazione, infatti, nel concreto, abbiamo soltanto lo svilimento della professione, l’abbattimento del costo del lavoro e, di conseguenza, una serie di guasti strutturali e di caos nelle regole d’accesso alla professione.
    A svilire la professione, sono le raccomandazioni (selezioni “innaturali” eppure normali e strutturanti il sistema giornalistico) e quei processi di “operaizzazione”, in atto.
    Gli editori prosperano su tutto ciò. La FNSI e, in parte, l’OdG – al di là delle buone intenzioni e delle sacrosante lotte di principio che hanno portato comunque a risultati come la Carta di Firenze e all’approvazione della legge sull’equo compenso – si sono dimostrati molto determinati ma poco efficaci sul piano concreto.
    Il piano concreto è proprio quello di un mercato del lavoro giornalistico inesistente. Gli editori continuano ad avere il monopolio sull’occupazione (applicando la regola della raccomandazione, a loro discrezionalità e con molta discrezione), mentre l’impiego dei giornalisti, negli anni, è stato manomesso dalla possibilità di sostituirli con chi, giornalista iscritto all’Ordine, non lo è, oppure lo è soltanto al livello formale (essendo entrato a far parte della categoria quando l’acquisizione del tesserino da pubblicista non si basava ancora su un giudizio di congruità, sul possesso di un titolo di laurea e sul risultato di un colloquio/esame), oppure è un giornalista inattivo che svolge l’attività professionale per quel tanto che basta per non perdere il diritto alla sua iscrizione all’Albo: situazioni che, svelando lo stato di bisogno e di vulnerabilità in cui la categoria versa, autorizza i datori di lavoro ad abbassare il prezzo dei compensi e costringe i giornalisti ad accettare questa situazione, riducendo il loro potere contrattuale.
    A questo problema si aggiunge quello dei finti contratti: quando si assume personale amministrativo e lo si adibisce al lavoro d’ufficio stampa oppure quando si assumono giornalisti che svolgano le loro mansioni ma con contratti a progetto, di consulenza e così via.
    E se poi, se considerassimo anche che il praticantato deve essere retribuito (ma per non parlo si ricorre agli studenti dei master), che l’assunzione, il più delle volte, avviene su base “elitaria” e “per segnalazione di” (per usare un eufemismo), otteniamo un quadro abbastanza completo di quegli elementi che distruggendo progressivamente le nostre possibilità occupazionali.
    Finiamo per ufficializzare la nostra condizione contraddittoria, creata da un mercato del lavoro in cui tutte le regole sono facilmente eludibili: coloro che non sono né raccomandati né retribuiti, per esempio, non potrebbero esercitare regolarmente la professione giornalistica, salvo coloro che sono ormai giornalisti professionisti o, al massimo, pubblicisti, tollerati soltanto perché, anche loro, hanno una posizione aperta presso l’INPGI. L’avviamento professionale, autofinanziato, è fine a sé stesso: difficilmente sfocia in un’assunzione e assume i caratteri di un’imposizione perché, in assenza di alternative (facoltà universitarie di giornalismo) e con gli editori che conservano il monopolio economico del diritto alla formazione, il ricorso ai master appare una scelta obbligata (e probabilmente, domani lo sarà ancora di più, alla luce delle disposizioni di legge che prevedono l’obbligo di un esame d’abilitazione professionale per poter esercitare la professione) che finisce con l’alimentare la disoccupazione e arricchire soltanto il mercato della formazione giornalistica, in questa sua forma monopolistica che, personalmente, trovo ancora più aberrante di quella che viene concessa agli editori.
    Nel frattempo, si consuma il dramma: mentre, al livello dei professionisti, il turnover è bloccato, i pubblicisti e gli aspiranti tali sembrano essere diventati una merce che l’OdG ha regalato direttamente agli editori: qui il ricambio di giornalisti è continuo. Fra gli autonomi, quel mercato che appare liberissimo, in realtà, è soltanto l’espressione plateale dello sfruttamento e delle possibilità, concreta e legiferata, per gli editori di risparmiare. Adesso che abbiamo l’equo compenso, una nuova generazione di “tute blu del giornalismo” si preparerà per immettersi nel nostro libero mercato fittizio: gli studenti dei master, gli stagisti universitari e dei vari corsi di perfezionamento (autorizzati dall’Ordine o privati, promossi da quelle fondazioni che offrono borse di studio per la formazione ed il lavoro temporaneo, ecc), giornalisti che scelgono – più o meno spontaneamente – il lavoro volontario e gratuito.
    Dunque la questione, per me, non è “professionisti o pubblicisti”, “praticantato gratuito, praticantato retribuito”, “giornalisti garantiti e autonomi”, piuttosto è: come evitare che la professione giornalistica scivoli sempre più verso la gratuità, da un lato, e l’elitarismo (di casta?), dall’altro. Si pone anche la questione della sostituibilità di alcune mansioni professionali con quelle di altri soggetti o, peggio, l’esercizio professionale effettivo e regolamentato attraverso forme contrattuali (più economiche) che sono molto strane, per non dire assurde.
    Per questo credo che occorra guardare la situazione attraverso una prospettiva diversa: la Carta di Firenze non può impedire ai giornalisti volontari di svolgere la loro professione; i parametri economici non devono impedire l’accesso alla professione; il criterio dell’esclusività professionale deve essere realmente rispettati, nella prospettiva di quel ricongiungimento che era stato previsto per i pubblicisti che lavorano nelle redazioni a tempo pieno e anche per coloro che vi collaborano percependo un compenso proporzionato alla qualità e alla quantità del lavoro svolto (quest’ultimo caso è quello dei periodici che escono meno di frequente, come mensili, trimestrali, ecc).
    Noi giornalisti abbiamo bisogno di esercitare in un sistema che impedisca agli editori di sostituirci con i non-giornalisti o di assumerci con forme contrattuali differenti dal CCNLG. Però – ed è questo il punto – abbiamo anche bisogno di nuove regole (e sottolineo “regole”, non “sanzioni”) che riguardino anche i giornalisti “accondiscendenti” che accettino il lavoro gratuito, assecondando le preferenze dell’editore. Per i giornalisti che vogliano esercitare la professione gratuitamente, si potrebbero prevedere delle quote di legittimità, in modo da non danneggiare il sistema dell’occupazione, e che siano inversamente proporzionali alle capacità economiche dell’editore (più grande è l’azienda, più piccolo il numero dei giornalisti impiegati gratuitamente possibili), anche per quelle aziende che non percepiscono i contributi all’editoria.
    Nel frattempo, si dovrebbe provvedere a legittimare anche la figura del “citizen Journalist”, classificandolo come colui che contribuisce alla diffusione dell’informazione e a stimolare il dibattito pubblico mosso da regioni etiche e prive di qualunque interesse economico.
    Se i citizen journalist avessero la loro “patente” e i giornalisti che non percepiscono compensi fossero riconoscibili – entrando a far parte di un sotto-elenco, magari provvisorio e ad esaurimento – tutti i datori di lavoro giornalistico avrebbero finalmente ben chiaro un concetto: le mansioni giornalistiche sono specifiche, sono regolate da un contratto, non possono essere svolte gratuitamente quando il loro particolare esercizio, di fatto, va a sostituire il lavoro remunerato.
    La creazione di un elenco per i citizen Journalist contribuirebbe a svuotare le sacche del precariato. Definirebbe in modo chiaro e perentorio chi sono i giornalisti che lavorano gratuitamente. Agevolerebbe quel lavoro di controllo finalizzato all’emersione del lavoro nero, perché i citizen Journalist sarebbero comunque esonerati dal pagamento dei contributi previdenziali e, allo stesso tempo, divenendo una categoria ben definita e dichiaratamente non-giornalistica, non verrebbero più confusi coi giornalisti (che sono tali perché svolgono questo lavoro), né potrebbero sostituire i più secondi, contribuendo a risolvere quel problema della confusione di ruoli che oggi, mettendo tutti sullo stesso piano, consente agli editori di reclutare “manovalanza giornalistica” a costo zero. Le aziende editoriali sarebbero obbligate ad assumere i giornalisti, pagandoli. I piccoli editori invece, dovrebbero essere aiutati e incentivati a “creare impresa” ma anche autorizzati – più dei colossi dell’editoria, delle pubbliche amministrazioni, degli uffici stampa aziendali – a mandare avanti le loro testate giornalistiche ricorrendo ai citizen journalist in quote superiori, ma solo nella prospettiva della crescita, del diritto d’espressione del pensiero e di fare informazione. Se i piccoli editori fossero agevolati e incentivati a crescere, potrebbero riuscire a pagare i loro “citizen journalist” in modo equo, lasciando poi a questi ultimi la libertà di scegliere se intraprendere un percorso professionale vero e proprio, secondo le regole vigenti ma prevedendo comunque un esame d’abilitazione.
    Il praticantato dovrebbe essere sempre retribuito e il registro dovrebbe poter accogliere gli aspiranti professionisti sulla base di criteri più flessibili e tra loro complementari, creando un rapporto equilibrato tra competenze e reddito percepito: chi ha lavorato di più, si è formato ad un livello dignitoso (con una laurea specialistica in giornalismo, per esempio) ma ha guadagnato di meno in termini economici, avrebbe la stessa dignità di chi ha ricevuto una formazione ottima (la scuola di giornalismo), ha lavorato pochissimo in una redazione ed ha anche speso moltissimi soldi, anziché guadagnarli.
    Si dovrebbero creare delle vere facoltà di giornalismo con un’offerta didattica degna delle esigenze della professione e per offrire nuove possibilità e diverse prospettive professionali, non solo agli studenti ma, anche ai giornalisti di comprovata esperienza, che potrebbero insegnare lì, in base ad una selezione (per concorso) che punti a favorire la ri-occupazione (dei disoccupati, precari, cassintegrati…).
    …occorre una riforma che crei nuovi equilibri economici e strutturali, abbatta gli elitarismi e il conservatorismo “di casta”, permetta ai giornalisti di riappropriarsi delle prerogative della loro professione e garantisca il rispetto del diritto di scelta (dalla formazione alla pensione).

    • Francesco Blasi

      Davvero pregevole, Giusy, la tua analisi sullo status quo del settore riguardo all’occupazione.
      Premetto, per restare nel tema di questo tread, che il “piccolo editore” non è diverso dal suo corrispettivo large: vuole fare l’imprenditore con i soldi pubblici, e agita lo spettro dello sfruttamento per ottenere che lo Stato, cioè noi, gli paghi le retribuzioni ai suoi collaboratori.
      Ecco: questa mentalità in degenerazione terminale assomma i due fenomeni che hanno dominato in successione l’economia italiana dalla Repubblica a oggi. Il “comunismo” dei datori di lavoro che continuano a reclamare assistenza e assistenzialismo, e lo pseudo-liberismo italiota e straccione, fermo ancora al laissez-faire di duecent’anni fa; da almeno un secolo superato dagli stessi anglosassoni, che del libero mercato hanno fatto la chiave per aprirsi le porte al dominio economico del mondo.
      Continuo a sostenere che le porte dell’accesso alla professione vanno chiuse brutalmente e sigillate, visto che ci troviamo in un lazzaretto in cui si muore ed è moralmente obbligatorio impedire che il contagio diventi un’epidemia. A porte chiuse, nel lazzaretto bisognerà pur cominciare a ragionare su come debellare il bubbone. E la legge sul compenso equo, se diverrà efficace almeno sul 20 per cento dei destinatari previsti, rappresenta un primo argine.
      Legge che peraltro non ho mai condiviso in quanto non opera sul CCNLG ma crea (come ho scritto altrove, non ricordo dove) un contratto surrettizio giornalistico la cui incisività è ancora tutta da valutare -e Dio non voglia che la apposita Commissione riproponga lo schema di pagamento “a pezzo” ignorando che questo sistema è proprio quello che dopotutto ha destipendializzato e dequalificato la fascia bassa del lavoro nel nostro settore.
      Sarebbe, in quel caso, un “equo tariffario” che non serve a nessuno, mentre
      la chiave per professionalizzare realmente sta nella retribuzione fissa e concordata col nostro sindacato (che così schizzerebbe in alto nelle iscrizioni e soprattutto troverebbe finalmente qualcosa da fare per uscire dalla catalessi dopo anni di sanguinolente grattate di ombelico); e inserita nel Contratto collettivo della categoria, giacché di lavoro giornalistico stiamo parlando… Hai mai tu sentito di metalmeccanici o tessili inquadrati in un “equo compenso” dei metalmeccanici o dei tessili al di fuori del loro contratto nazionale? Io no, e non penso di essermi perso qualcosa.
      Ma a questo punto mi chiedo e ti chiedo: se le fattispecie contrattuali ci sono già, dai capiredattori al collaboratori saltuari non professionali, a cosa serve dunque la legge sul compenso equo se non ha sbocco in una contrattazione collettiva nazionale e aziendale, almeno per le realtà più rilevanti? Devo ammettere che la risposta non ce l’ho. E la nostra cara Fnsi nicchia, o svia buttandola tutta sugli slogan con qualche intermezzo iperuranico.

      Il lavoro va sempre e comunque pagato, in modalità e cifre che permettano a chiunque di raggiungere l’indipendenza economica personale e mettere su famiglia. E, però, chi è davvero in grado di offrire lavoro vero rappresenta una frazione minima della attuale pletorica mappa inquinata da pseudoeditori, editori per caso, editori puri ma poveri e editori “per passione” (categoria che trovo un po’ ambigua).
      Ecco perché non mi appassionano i discorsi sulla moltiplicazione miracolosa dei giornalisti in un paese che legge poco e ed è tenuto al guinzaglio culturale da una politica autoreferenziale che ha occupato militarmente anche l’editoria, in prima persona o attraverso i suoi padrini economici.
      E per me non contano le distinzioni tra professionisti e pubblicisti: sono professionista ma gli unici reali professionisti sono per me coloro che scrivono i giornali e fanno i telegiornali e i radiogiornali. La rete è cosa più complessa, degna di un approfondimento cui però non sono titolato. Francesco

  • Luca

    Sono iscritto all’albo speciale dei giornalisti da 7 anni e gestisco una testata tecnica, ho anche un’abilitazione professionale, ma di guadagni non se ne parla proprio. Gli scritti all’elenco speciale in Italia sono 9138, ma per molti di loro non c’è alcuna prospettiva, solo sogni nel cassetto. Il lavoro però dà molta soddisfazioni, molti leggono i miei articoli, ho contatti con istituzioni straniere, mi invitano a convegni internazionali, ma non ci posso andare. Gli articoli li scrivo io e li traduco da autori stranieri che me li passano gratis sulla fiducia. Non potrò mai diventare un giornalista, o un pubblicista in Italia, però forse all’estero si. Se vado a un convegno non ho un tesserino perché non è previsto, quindi ufficialmente non sono il direttore del mio sito e quindi evito di dirlo altrimenti mi prendono in giro, posso tranquillamente presentarmi col mio titolo professionale, i colleghi mi conoscono, alcuni forse pensano che io sia un giornalista.
    Comunque sono contento per questa legge perché metterà i grossi giornali di fronte ad una realtà: sul mercato c’è tanta gente capace, che ha competenze professionali, sa scrivere articoli bene e non guadagna una lira e li possono pagare meno dell’equo compenso, ma se son bravi li possono pagare anche di più; essi non vogliono diventare giornalisti ma solo campare e magari farsi conoscere. Alcuni scrivendo articoli potranno mettere un link al loro sito su cui forse guadagnano promuovendo qualche prodotto, o magari promuovono il loro lavoro professionale. L’equo compenso servirà a garantire qualche bravo giornalista, con un piede dentro ed uno fuori la redazione, ma per i free-lance i giornali dovranno per forza guardare al mercato e su un mercato divenuto più ampio troveranno maggiore qualità e il prezzo lo faranno loro. Non guardo la televisione italiana perché ormai non ci sono più documentari culturali, o film, ma su ogni canale giornalisti che parlano di tutto e di più.

  • GiusyB

    Sottoscrivo ogni parola, Francesco, ed aggiungo che, secondo me, l’equo compenso è poco più che un monito, non una norma in senso stretto, e mi sembra addirittura inefficace. Infatti, non è stata concepita come una vera prescrizione, perché non prevede alcuna sanzione in caso di violazione. Al massimo, questo provvedimento porta delle conseguenze economiche non trascurabili per gli editori che, violandolo, perdono il diritto ai contributi economici. Dunque questa misura ha una funzione puramente “educativa”, più o meno come la Carta di Firenze. E’ una norma che non interessa il CCNLG e crea un contratto surrettizio – come hai già giustamente sottolineato – forse perché il suo scopo è di colmare il vuoto lasciato da quel tariffario andato in pensione 5 anni fa e, contemporaneamente, di regolare il lavoro autonomo dei giornalisti (e pubblicisti), nella prospettiva di una sua crescita dimensionale, rispetto al lavoro dipendente. Nella mente del legislatore – credo – il lavoro del free-lance è come quello del lavoratore occasionale (interinale, di “somministrazione”…) che va tutelato equiparandolo al titolare di un rapporto contrattuale di tipo subordinato: altre giustificazioni all’equo compenso, effettivamente, non le trovo, nemmeno io.

  • GiusyB

    p.s. sono Giuseppina Brandonisio, un’autonoma, una pubblicista (mio malgrado) del Lazio. Come tanti altri giornalisti nella mia stessa condizione, sono in attesa di capire per poter quantificare questo compenso “equo” anche se dubito che ciò servirà a limitare le richieste assurde (che piovono a raffica) di quegli editori che offrono compensi di 8-12 euro “a pezzo” perché, infondo – dicono loro – questa è una media nazionale dei prezzi per le collaborazioni.

    • Francesco Blasi

      Ciao, Giuseppina. E’ proprio quanto sostieni che dovrebbe preoccupare: che cioè siamo ormai apertamente al “mercato” parallelo dei giornalisti sul criterio del “pezzo”. Un cottimo reintrodotto in modo strisciante molto dopo il divieto per legge del lavoro a cottimo. Con tanto di media stabilita unilateralmente. Ma qui sono decisamente con Stefano Tesi, che giustamente invita a rifiutare compensi irrisori e irrealistici.
      Ma il mercato parallelo è purtroppo un dato di fatto già acquisito, anche se tuttora incredibile.
      A preoccuparmi sul serio in vista dell’attuazione della legge sul campo, invece, sono le dichiarazioni trionfalistiche di Franco Siddi che rimarca con martellante regolarità la fine della schiavitù per i “lavoratori autonomi”.
      E quindi ci risiamo: sarebbero “autonomi” anche quelli che nei fatti sono subalterni. Ovvero: chi lavora regolarmente (ogni giorno) su ordini e consegne precise -è il caso della maggior parte dei giornalisti non contrattualizzati al servizio dei quotidiani-, per la Fnsi rimane “autonomo”.
      E’ dunque la buccia di banana semantica a tradire ancora una volta il nostro sindacato, che parla con lo stesso linguaggio della Fieg. E con questa terminologia accuratamente scelta non si va -come i fatti dimostrano- oltre una rivendicazione di “compenso equo”.
      Un po’ don Abbondio e un po’ volpe, la Fnsi ricorda tanto il diplomatico e scafato Vujadin Boskov, che alle domande insinuanti e provocatorie dei giornalisti nel dopopartita, parlando di rigori negati rispondeva neutro e serafico come un nastro registrato che “è rigore quando arbitro fischia”.
      Ecco: la Fnsi-Boskov ci ripete a mo’ di disco rotto che “è autonomo quando editore fa contratto da autonomo”.
      E usa come braccio operativo per l’autonomizzazione di massa -ma va’- proprio la “commissione lavoro autonomo”, che con i giornalisti dipendenti privati del contratto c’entra come Pilato nel Credo.
      E allora, a quando una Commissione per il contratto a chi ne ha maturato il diritto?

      • GiusyB

        Ma Siddi ha ragione: finalmente lo sfruttamento è finito. Grazie all’equo compenso, il criterio del lavoro “a cottimo”, del pagamento a pezzo, viene finalmente smantellato. Di ciò dobbiamo ringraziare soprattutto Enzo Iacopino, per l’impegno e la risolutezza con i quali operato, poiché, noi autonomi, una rappresentanza sindacale vera non l’abbiamo.
        La norma dell’equo compenso, infatti, sebbene non preveda una sanzione diretta per gran parte degli editori che non la applichino, sancisce il rispetto del diritto di chi lavora a non essere sfruttato, nel pieno rispetto delle leggi costituzionali.
        La questione del mercato parallelo invece, secondo me, non si pone: chi decide di dedicarsi al giornalismo per passione (perché ci crede, perché fare informazione non è mai stato né mai sarà, io credo, un passatempo oppure un’alternativa alla pratica del gioco delle bocce), non danneggia il mercato, perché – come tu stesso hai giustamente affermato – costui è già fuori dal mercato.
        Semmai, il problema della concorrenza del “mercato parallelo” si sarebbe manifestato se l’obbligo al rispetto dell’equità retributiva non fosse esistito.
        Mi spiace che l’equo compenso non riguardi i piccoli editori e avrei voluto che fosse stabilito un limite all’impiego del lavoro gratuito. Ma il volontariato e lo sfruttamento sono due concetti da non confondere.
        Sulla questione di quei compensi indegni ed offensivi, credo infatti che né io, né te, né Stefano Tesi abbiamo il diritto d’intrometterci nella sfera privata delle decisioni di ognuno.
        E poi non leggo alcuno scivolone semantico della FNSI a proposito della definizione di “autonomi”. Purtroppo – è vero – chi svolge il lavoro di un subalterno mentre ha un contratto da autonomo vive la condizione peggiore.
        Tuttavia, non si può pretendere d’istituire una commissione che costringa le aziende editoriali a stipulare taluni contratti piuttosto che altri con i suoi lavoratori: però esistono i controlli e la possibilità di far rispettare le leggi vigenti. Avevo già affermato che, secondo me, l’utilità dell’equo compenso consiste proprio nel dare pari dignità economica al lavoro. Partendo da questo presupposto, gli editori potranno stabilire se a loro converrà di più trasformare i vari accordi contrattuali degli automi in contratti di lavoro dipendente.
        L’equo compenso non è pensato per reintrodurre il lavoro a cottimo. Piuttosto, serve a far saltare proprio quella logica del pagamento “a pezzo” che aveva causato un abbassamento delle retribuzioni dei giornalisti (professionisti e pubblicisti).
        Purtroppo, nella nostra categoria professionale gli interessi in gioco sono tanti: ognuno di noi è abituato, giustamente, a difendere i propri: i pubblicisti vorrebbero il loro riconoscimento professionale mentre molti professionisti avevano sperato che il decreto di ferragosto eliminasse in un certo senso la “concorrenza”; gli editori minori vorrebbero poter accedere ai contributi pubblici e/o giustificare lo sfruttamento per via della loro povertà; gli autonomi vorrebbero diventare dipendenti, ecc.
        Purtroppo (ma anche per fortuna), la battaglia per il riconoscimento dei diritti e delle aspettative di ognuno è iniziata adesso.
        Personalmente – mi ripeto – sono grata a Iacopino ed ammiro la sua capacità di tenere insieme tante anime diverse.

  • GiusyB

    …ecco appunto…
    Solo che, “gli autonomi”, un contratto non ce l’hanno!
    Non ho la più pallida idea di cosa passi per la testa a Siddi, né di come farà la commissione a calcolare l’equo compenso allo scopo di equiparare il lavoro autonomo a quello dipendente. Il lavoro “a cottimo”, di fatto, non sparisce, poiché si svolge soprattutto nelle testate di minori dimensioni e nei periodici che hanno una frequenza d’uscita inferiore dei quotidiani.
    Se per una come me, per esempio, che lavora per i periodici, spesso specializzati, producendo servizi o articoli che possono richiedere anche una settimana di lavoro preparatorio (extra-redazionale), dovessero stabilire l’equità del compenso sul quoziente che si ottiene dividendo lo stipendio mensile di un dipendente per le sue ore di lavoro interno, le mie attuali remunerazioni (che si aggirano intorno ai 60-100 euro ad articolo, tenute conto della complessità dell’elaborato e della tiratura delle testata), con tutta probabilità, si ridurrebbero perfino!
    Allo stesso tempo, i non contrattualizzati, considerati autonomi, anche quando lavorano ricevendo ordini e consegne quotidiane, con questo calcolo assurdo vedrebbero aumentare/diminuire le retribuzioni di ogni singola prestazione in rapporto all’aumentare/diminuire della mole di lavoro giornaliero!
    Personalmente, ho molti dubbi sull’equo compenso. Certi elementi del provvedimento di appaiono addirittura illogici, abbastanza da generare più confusione che vantaggi.
    Sarebbe più giusto invece istituire commissioni per il contratto a chi lo meriterebbe: agli autonomi che lavorano (giorno e notte) nei quotidiani, soprattutto perché – come l’INPGI tiene a sottolineare quando deve distinguere tra iscritti della gestione 1 e 2 – a differenza di quel che accade a me, il lavoro dei giornalisti senza contratto nei quotidiani si può quantificare; questa categoria di autonomi sta fisicamente in redazione per almeno 36 ore settimanali.
    Dunque – aggiungo io – un contratto lo meriterebbero eccome!
    L’equo compenso, invece, potrebbe addirittura ritorcersi contro tutti gli altri autonomi/free-lance, poiché, uniformando le tariffe, il compenso “a pezzo” non sarebbe più libero e trattabile. E , sul piano pratico, tutto ciò potrebbe tradursi in un autentico disastro. Soprattutto perché – parlo sempre in virtù dell’esperienza personale e di quella che mi raccontano alcuni colleghi – questo nostro lavoro “a pezzo” fa sì che all’aumentare dei compensi corrisponda una diminuzione degli articoli pubblicati. Viceversa, all’aumentare degli articoli pubblicati, corrisponda una riduzione delle somme percepite, perché, sechiedi cifre troppo alte, l’editore non è più disposto a lavorare con te.
    ….sono convinta che, se accettassi quei 12 euro ad articolo, lavorerei il quintuplo, ricavandone più o meno lo stesso onorario.

    • Francesco Blasi

      Giuseppina,
      hai messo come suol dirsi molta carne a cuocere e avere una replica o commento pronti per tutto è compito che mi sovrasta, e di molto anche.
      Ma su un punto ci vado giù di lena, con un buon uso di quel “pensiero laterale” che è poi l’escamotage consigliato per uscire dal circolo vizioso di un set di concetti che si ripetono ciclicamente grazie alla nostra incapacità di semplificare -un po’ come doveva farsi con le espressioni algebriche a scuola…
      Orbene: l’equo compenso, al di là dell’entità del presunto aumento da applicare al corrispettivo delle prestazioni giornalistiche (scuserai la locuzione tronfia), è una risposta escludente: non tanto perché avrà l’effetto, inevitabile peraltro, di espellere dal mercato del lavoro giornalistico ( e spesso le stesse “aziende” per cui ora lavorano, già incapaci di tenere botta) i manovali del copiaincolla che lavorano gratis o quasi a un prodotto inutile e non richiesto o inflazionato; soprattutto, escluderanno forse in modo definitivo (giacché di seria riforma della professione si blatera senza costrutto) i dipendenti di fatto dall’accesso al contratto.
      Vista lateralmente, la questione è più chiara. E assolutamente agghiacciante. Il corrispettivo “a pezzo” crea -attention please- corrispettivi totali mensili che rappresentano lo “stipendio” corrisposto. Esempio: io piccolo editore (o grande malfattore, fa lo stesso) non intendo assumere personale perché pessimista sulla mia stessa prospettiva di rimanere sul mercato da solo, ma votato comunque alla solitudine giacché ignoro che l’economia e il mercato si basano sulla raccolta e sull’investimento dei capitali, ciclo che si ripete scandendo la crescita a suon di espansione, acquisizioni e diversificazione. In altre parole ciò che si chiama “impresa”, che poi è molto poco frutto della “passione” piuttosto che della conoscenza dei meccanismi industriali e finanziari, generali e di settore.
      Se parto senza assumere personale, che poi dovrebbe essere al pari dei beni e servizi strumentali la forza motrice del mio progetto, sono un poveretto che, come suol dirsi da queste parti -versione edulcorata- “vuol godere col deretano altrui”. Non so vendere a possibili investitori la mia idea, piccola o grande che sia, dunque sono un masochista che ha scelto il fallimento, salvo pietire fondi pubblici e strepitare se altri vengono aiutati dallo Stato. E comunque deciso a sfruttare chi si fa sfruttare in nome di un’idea che nasce priva di un futuro. Sviluppando il ragionamento, quel corrispettivo a pezzo non nasconde altro che il molto preteso stipendio che sono in grado di offrire. E in altre parole ancora: mi sono fatto la legge da solo, scavalcando ogni norma che regola il lavoro nel settore.
      Anarchia, dunque. E favorita anche dal governo e dal parlamento (tutti i governi e tutti i parlamenti fino a oggi).
      Tu stessa sei arrivata molto vicina a intuire il meccanismo, quando più o meno hai sostenuto che, salendo i prezzi “al pezzo”, verosimilmente diminuiscono i pezzi commissionati o pubblicati. Significa che il calcolo per unità di prestazione è uno specchio per le allodole che cela un quantum invariabile, quali che siano i compensi unitari.
      L’inghippo è appunto nel sistema unitario, cui è sommamente funzionale la formula del “lavoro autonomo”. Anzi, l’uno si regge grazie all’altra. Ne consegue che lo “stipendio” risultante è la valutazione che il mercato parallelo del cottimo (da non intendere nel vecchio significato, bada) ha posto in capo al “giornalista” inghiottito in questo meccanismo duale.
      La Fnsi questo lo sa meglio di me e di te. Non a caso la buccia di banana semantica viene puntualmente calpestata ma con studiata nonchalance, onde “coffiare” i creduloni ma anche distrarre l’attenzione dei più acuti d’ingegno.
      Nessuno potrà mai dire quanto vale un “pezzo”; non solo perché la parola può intendere mille cose diverse tra loro (per ore di lavoro richieste, intelligenza necessaria, spese per la realizzazione, tasso di difficoltà dell’argomento, accessibilità delle fonti, target editoriale ecc.), ma perché l’utilizzo del prodotto finale -diciamo così- può essere previsto in contesti che vanno dal più remunerativo al totalmente fuori-mercato.
      Ciò che si può quantificare con certezza -e paghiamo con le nostre tasse perfino un istituto delle statistiche per saperlo- è la cifra minima di cui un lavoratore a tempo pieno (l’unico di cui stiamo parlando visto il discorso di sopra sull’impresa reale) necessita per vivere. E in Italia, a partire da chi è single, occorrono non meno di 2mila/2300 euro al mese.
      Così come sul mercato merita di stare chi è in grado di affrontarne le difficocoltà con spalle robuste, nelle imprese di quel mercato merita di lavorare chi è capace di sostenerne le ambizioni. Ma non mi fraintendere: fatta sempre salva la deontologia della nostra professione (o arte, mestiere o come vuoi chiamarlo).
      La schiavitù finisce quando comincia la dignità dell’autosostentamento, e quando il cappello viene indossato con autostima e non portato tra le mani per invocare aiuto e pietà.
      E questo lo sanno tutti, a cominciare dalla Fnsi, cui obtorto collo devo cedere 60 euretti l’anno nella speranza che su questa enorme pagliacciata di cui l’equo compenso è l’ultima gag cali il sipario. Francesco

      • Giusyb

        …infatti affermavo che, non potendo quantificare l’equo compenso per ora, è difficile capire se alle aziende converrà assumere quegli autonomi che sono dipendenti di fatto. D’altra parte, i contratti stanno diminuendo anche per effetto dell’evoluzione delle strutture redazionali: nelle testate, il numero dei redattori interni sta calando mentre sta aumentando il contributo esterno dei freelance.
        L’equo compenso sicuramente si ripercuoterà sul lavoro autonomo: io, che ho una visione pessimistica, credo che lo farà in peggio, causando una riduzione dell’occupazione. Ci serve una riforma dell’ordine ma anche una serie di criteri che non distrugga i vantaggi della flessibilità del lavoro. Secondo me, la lacuna di questo provvedimento è nel non aver considerato la capacità economica di un’azienda editoriale in rapporto al numero dei contratti che può stipulare: non basta dire “se non paghi equamente perdi i contributi”. Concretamente la norma salva dalla “schiavitù” ma non agisce sul problema del lavoro che si fa sempre più precario. Al massimo, l’equo compenso potrà incidere su questo fattore, indirettamente, riducendo le possibilità dei piccoli editori e della loro manovalanza a costo zero.E questo è già un buon inizio, se non altro perché porrà un freno al giornalistificio e spingerà i piccoli imprenditori a concepire modalità nuove e differenti dalle tradizionali di fare impresa.

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  • francesca

    In merito alla risposta del dott.Antonelli che approvo in pieno, voglio raccontare la mia triste esperienza avuta pochi giorni fa con il direttore di un’importante testata. Anticipo che io sono giornalista(critico di teatro e danza) regolarmente iscritta all’ordine da 10 anni e che per altri 10 anni è stata collaboratore continuativo di altra testata importante come IL GIORNALE alla redazione di Genova. La mia vicenda riguarda questo: a seguito della mia proposta di operare come critico, quale sono, alla testata mi è stato offerto dal direttore una collaborazione gratuita con la scusa che al momento sono ferme le assunzioni. Chiedo al dott. Antonelli se questa proposta, diciamo pure “indecente”, era legittima e in ogni caso faccio a riguardo le mie tristi considerazioni in merito ad una professione che purtroppo sta perdendo sempre più valore nel mercato del lavoro. grazie

  • Antonello Antonelli

    La proposta indecente era del tutto illegittima, anzi viola tutto il dettato deontologico della “Carta di Firenze”, oltre ovviamente alla pur menomata legge sull’equo compenso.
    Quanto al destino della professione, gentile Francesca, io ho deciso a malincuore allora, ma felicissimo adesso, di cambiarla del tutto e dedicarmi ad altro.
    Grazie di aver contribuito alla discussione.

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