L’eptacaidecafobia “malattia” tutta italiana: la mia relazione alla conviviale accademica del 17 luglio 2020, venerdì… in anno bisestile pandemico!

Ieri sera, nel corso della Conviviale estiva della delegazione di Chieti dell’Accademia Italiana di Chieti, caduta di venerdì 17, di anno bisestile e pandemico, dopo altre due conviviali fissate sempre al 17 (maggio e giugno), sono stato chiamato a trattare proprio di questa fissa, tutta italiana, per la sfortuna che porterebbe il 17 (e il suo abbinamento con il venerdì), che prende il nome scientifico di eptacaidecafobia.

Questo è il testo del mio intervento:

Siamo afflitti, noi italiani, unici tra tutti gli esseri umani, da una pericolosissima turba psichica che la medicina ha classificato come eptacaidecafobia, variante tutta italica di una malattia molto più diffusa al mondo che è la triscaidecafobia, che non ci tocca minimamente se non per una caratteristica comune che ha con la nostra versione.

Ebbene, da quando è terminata la quarantena imposta a tutti noi dall’espandersi del Coronavirus, noi della delegazione di Chieti dell’Accademia Italiana della Cucina, pur consapevoli del nostro scarso contributo alla lotta contro il Covid-19, abbiamo deciso di impegnarci almeno nel tentativo di estirpare dalle nostre tavole la terribile piaga della eptacaidecafobia, che è subdolamente insinuata nei nostri animi, sebbene la maggior parte di noi neghi pervicacemente la sua presenza, finanche la sua esistenza, nelle nostre vite da sempre legate a doppio filo al razionalismo illuminista.

Abbiamo iniziato questa battaglia già lo scorso mese di giugno, alla chetichella, ma oggi, dopo il positivo esito del primo esperimento, stiamo passando al secondo, importante e più difficile gradino della cura, che ci porterà poi alla consapevolezza della malattia e quindi ad una cura più efficace di essa.

Tutto inizia dall’inizio, non è un gioco di parole, poiché tutto inizia nella Genesi, il primo libro della Bibbia e testo delle origini per tutte le grandi religioni monoteistiche (anche i musulmani sono molto devoti ai racconti biblici, anche se ritengono che la rivelazione finale sia quella del Corano), precisamente il 17 Cheshvan, che corrisponde più o meno all’inizio di novembre, di un anno imprecisato, comunque nel seicentesimo anno della vita di Noè, che dovrebbe collocarsi, facendo due conti rispetto alla cosmogonia ebraica, attorno al 2900 a.C.: è la data, secondo Genesi 7, 11 dell’inizio del diluvio universale, un dato certamente mitologico, ma che viene condiviso – unico – da tutte le culture della Terra, dall’epopea di Gilgamesh mesopotamica al mito di Deucalione e Pirra in Grecia, fino ai miti di Scandinavia, Irlanda, India, Cina, Malesia, Australia, Polinesia, i racconti atzechi, inca e maya, il che ha fatto pensare agli studiosi che oggettivamente ci debba essere stato un evento catastrofico, che ha interessato gran parte del pianeta.

Questo fu solo l’inizio: ma perché l’eptacaidecafobia si radicasse proprio e solo in Italia, ci vollero una tradizione tipicamente romana e un grande matematico e filosofo greco, nato nell’isola di Samo, ma cresciuto e morto in Italia, a Metaponto, vicino Matera, Pitagora. La sua concezione dei numeri era di tipo geometrico e per questo nella sua opera, dopo il quadrato perfetto 4×4 = 16 e prima del poligono 3x3x2 = 18, si trovò nell’impossibilità di ridurre in una qualsiasi figura geometrica il 17, facendolo scomparire dai suoi studi, con una sostanziale maledizione che i suoi discepoli, molto influenti e di grande peso politico, sia nella Magna Grecia sia poi presso gli occupanti romani, perpetuarono nei secoli.

Gli stessi Romani, che pensavano ai numeri non geometricamente ma semplicemente a livello letterale, come tutti ricorderete, avevano il sacro terrore del 17 poiché le sue lettere costitutive XVII, anagrammate, davano il classico epitaffio da lapide funeraria: VIXI, cioè “sono vissuto” quindi “sono morto”. Giova osservare che ai tempi dei Romani gli epitaffi erano scritti come se a pronunciarli fosse direttamente il defunto, una sorta di Spoon River ante-litteram. Tra l’altro, nel settembre del 9 d.C., nella terribile disfatta della foresta di Teutoburgo nel territorio dei Germani, i barbari distrussero per intero la legione XVII, uccidendone i capi, sacrificando i tribuni e i centurioni ai loro dei sugli altari e seviziando orrendamente i militari della truppa. I pochissimi superstiti delle legioni XVIII e XIX, che condussero sei anni dopo il generale Germanico sul luogo della disfatta, trovarono i resti dei loro sfortunati commilitoni sparsi in un’area enorme e da quel momento, l’esercito romano bandì la legione XVII dai suoi ranghi, cancellandola di fatto dagli annali militari. Questo ricordo infausto si perpetuerà per tutto l’Occidente latino, ma sarà fortemente sentito nella Penisola italiana, visto che la Legio XVII era formata interamente da cittadini romani di origine italica.

La smorfia napoletana, che rappresenta l’anima più popolare della Penisola, memore di questa damnatio memoriae, assegna al numero 17 la “disgrazia” come arcano principale, ma anche nelle interpretazioni “minori” c’è sempre qualcosa di sinistro: 17 è il barcaiolo, come Caronte, il traghettatore delle anime dannate all’inferno; 17 è il carbone acceso, simbolo stesso delle pene dell’inferno; ancora 17 è il gatto nero, che la tradizione letteraria anti-stregoneria del Malleus Maleficarum individua come manifestazione diabolica; 17 infine è il numero del “faticare”.

Avrete ormai capito che l’eptacaidecafobia è la paura del 17, che stiamo ben bene esorcizzando, con la conviviale di giugno fissata al 17 e con questa che addirittura è stata fissata a venerdì 17.

Perché mai questa combinazione è letale? Del 17 abbiamo già detto, ma del venerdì è facile dire: è il giorno della morte di Cristo, il giorno in cui fino alla riforma del Vaticano II era imposto il digiuno (nei tempi forti) e l’astinenza dalle carni (nel corso dell’anno) a ricordo del sacrificio di Cristo.

Ma venerdì è giorno infausto anche per i musulmani, secondo cui il peccato originale di Adamo ed Eva fu compiuto proprio di venerdì e per questo, oltre al fatto che nel VII secolo d.C. i principali mercati della Penisola Arabica si tenevano di venerdì, la preghiera principale dell’Islam, la Jumu’a, è fissata al venerdì.

Tuttavia, già ai tempi dei Romani il giorno di Venere, insieme a quello del suo divino amante, Marte, erano elencati tra i giorni nefasti, ossia quei giorni in cui non era consentito elevare preghiere agli dei: questo perché il primo era dio della guerra e della discordia e la seconda invece, dea della bellezza, si era accaparrata il temerario giudizio di Paride offrendogli, come sappiamo, Elena, la più bella tra le mortali, a scapito di Era e Minerva, provocando la guerra di Troia. Inoltre, i due dei erano stati protagonisti di un curioso e piccante rendez-vous: Venere, moglie di Vulcano, si innamora di Marte e con lui tradisce il marito nella propria camera nuziale. Il Sole scopre l’adulterio e lo rivela subito a Vulcano. Questi, infuriatosi, si vendica costruendo una rete invisibile, da legare attorno al letto disonorato. Così i due amanti, colti in flagrante durante il loro incontro furtivo, vengono intrappolati nella rete. Vulcano, per dar risalto alla sua vendetta, chiama tutti gli dei a raccolta per essere testimoni del fatto. Libererà poi i due amanti solo grazie all’intercessione di Nettuno.

Insomma, a causa di questi precedenti ben poco divini, i due giorni sono rimasti, nella settimana, segnati per sempre tant’è che la saggezza popolare ha sintetizzato questa situazione con un distico indimenticabile: Né di Marte né di Venere non si sposa, non si parte e non si dà principio ad arte.

Potrei fermarmi qui, ma non vi svelerei l’ultima curiosità: vi dicevo che la eptacaidecafobia è una variante di una “malattia” molto più diffusa, la triscaidecafobia, che a questo punto, etimologicamente, è facile da capire, la paura del numero 13. Nel mondo, specialmente in quello anglosassone ed anglofono è la più diffusa: inutile dire che l’origine deriva direttamente dal racconto evangelico dell’Ultima Cena dove i commensali erano appunto 13, ma per comprendere come questo numero sia in particolar modo temuto in quell’area etnica e linguistica che si rifà alle antiche popolazioni celtiche e scandinave, strettamente imparentate tra loro, occorre sapere che nella mitologia scandinava, i semidei erano in origine 12, tutti benevoli, che avevano portato benefici e progresso agli uomini, fino a quando non è sopravvenuto Loki, il tredicesimo semidio, attaccabrighe, invidioso, dedito solo a far soffrire gli uomini per puro divertimento.

Anche nel sistema astrologico assiro-babilonese il 13 era il primo numero che usciva fuori dalla loro concezione religioso-mitologica basata sulle 12 costellazioni principali e nel mondo greco ellenistico fece sempre molto scalpore il racconto della morte di Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, che venne colpito da un fulmine dopo aver collocato la sua statua insieme alle 12 degli dei principali dell’Olimpo nel santuario della sua capitale, Pella: lui si era proclamato il tredicesimo dio!

E per chiudere questa cavalcata storico-mitologica, non posso non citare un altro evento che impressionò l’intero mondo allora conosciuto, avvenuto un venerdì 13, ma di ottobre, del 1307, giorno in cui Filippo IV il Bello, re di Francia, desideroso di mettere le mani su tutte le loro ricchezze, fece arrestare tutti i Templari, condannandoli poi a morte a partire dal suo gran maestro, l’ultimo della storia, Jacques de Molay, che bruciò sul rogo l’indomani, sabato 14 ottobre 1307.

Venerdì 17 o venerdì 13 che sia, i Romani pensavano però che l’anno bisestile che fosse iniziato con un venerdì sarebbe stato disastroso. Ora chi glielo dice ai nostri antenati che il 2020 è iniziato di mercoledì?

Per chi volesse invece seguire la mia relazione, la può trovare in video su You Tube

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