Gli autonomi sorpassano i contrattualizzati ma prendono un quinto dello stipendio: ora anche i numeri confermano, si farà qualcosa?

C’è voluto l’ultimo rapporto di “Libertà di Stampa, Diritto di Informazione” (Lsdi) per farmi riprendere in mano le fila di questo blog, da un po’ di tempo “parcheggiato” per mancanza di serie novità o di una qualunque prospettiva concreta rispetto ai temi per i quali mi sono battuto negli ultimi due anni.

Che dice in sostanza il rapporto? Quello che da tempo in tanti andiamo dicendo e che ora scoprono anche a Roma (sponda sindacato, ovviamente): i giornalisti autonomi attivi (ovvero con posizione aperta all’Inpgi) superano di gran lunga quelli contrattualizzati.

Non ci volevano le crude cifre a capirlo, bastava farsi un giro per le redazioni, sempre più sguarnite, o leggere le firme in calce ai pezzi e confrontare i nomi con gli organici redazionali: i “collaboratori” sono la maggioranza assoluta dei giornalisti italiani. Solo che guadagnano appena un quinto (fino a punte di un settimo) dei colleghi contrattualizzati, lavorando spesso per cifre ridicole se non simboliche.

Questi i numeri, in sintesi del rapporto:

 

1)     Nel 2000 quasi sette giornalisti attivi su 10 (65%) erano lavoratori dipendenti (in massima parte con contratti Fnsi-Fieg). Alla fine del 2012 il rapporto si era ridotto al 40%: oggi, sei giornalisti attivi su 10 fanno lavoro autonomo.

2)     In tredici anni la popolazione giornalistica attiva in Italia – contrariamente a quanto avviene in altri paesi – è più che raddoppiata, passando da 21.373 a 47.227 giornalisti attivi (con posizione Inpgi).

3)     Il reddito dei giornalisti autonomi è 5 volte inferiore rispetto alla media annua delle retribuzioni dei giornalisti contrattualizzati (che nel 2012 era pari a 62.459 euro). Quello dei Co.co.co è ancora più basso: sette volte minore.  

4)     In Italia (se si tiene conto del numero degli iscritti all’ Ordine) c’ è un giornalista ogni 526 abitanti, contro 1/1.778 in Francia e 1/5.333 negli Stati Uniti.

 

Nihil novi sub soli, certamente, come ha appena rilevato il collega Stefano Tesi nel suo blog (anche lui come me ultimamente “avaro” di post sul giornalismo, mi sa per la stessa mia ragione), dove si porta, non a torto, alle estreme conseguenze la lettura dei dati, preconizzando la morte della professione, che anch’io ritengo in decomposizione da molto.

Alcune riflessioni sparse però occorre farle.

Se i giornalisti “attivi” sono oltre 47 mila e quelli iscritti oltre 110 mila, gli altri che fine hanno fatto? A parte un non trascurabile gruppo di pensionati, dove sono negli elenchi Inpgi gli altri 50 mila colleghi? Sono inattivi? Come hanno fatto ad eludere l’obbligatorietà dell’iscrizione all’Inpgi? Se hanno meno di 15 anni di iscrizione all’Ordine, perché non li si sbatte fuori dall’albo? C’è un minimo di certezza del diritto almeno tra di noi, che dovremmo scovare le “magagne” dello Stato?

Se le retribuzioni di co.co.co. ed autonomi sono infime rispetto ai contrattualizzati e i primi producono comunque il 60% (se non di più nell’informazione locale) del prodotto informativo, perché non si inserisce tra le priorità di intervento il tema dell’equo compenso, protagonista del più assurdo balletto degli ultimi due anni e che langue ancora in commissione tra veti incrociati e tentativi dilatori? Anche qui, dov’è la certezza del diritto? Dove il rispetto della lettera della legge? Al conterraneo sottosegretario Giovanni Legnini, pur apprezzato e conosciuto per la sua determinazione, va fatto sapere che non sono i proclami o gli ultimatum (che pure ha lanciato negli ultimi tre mesi) a rendere concreti i diritti di decine di migliaia di collaboratori, autonomi, freelance che comunque solo in minima parte beneficeranno del provvedimento sull’equo compenso, che però almeno porrebbe un discrimine ed un riferimento fondamentali.

Possibile, infine, che il giornalismo sia ancora così appetibile da far sì che schiere di giovani (e meno giovani) accettino compensi da fame (e di mantenersi facendo tutt’altro) pur di vedere la propria firma su un pezzo qualsiasi? Possibile che migliaia di pensionati, pur disponendo di lauti assegni mensili, si incaponiscano nel continuare l’attività giornalistica, sfruttando conoscenze e canali acquisiti in decenni di professione, sottraendo spazio ai più giovani e soprattutto deprimendo un mercato già di per sé depresso, visto che non hanno bisogno di sostentamento e possono scrivere quasi solo per la gloria? Possibile che un Ordine professionale, che pure sta facendo molto per migliorare la condizione dei cosiddetti “schiavi” della professione, sia condizionato nelle sue scelte da chi professionista non è? Possibile che un sindacato sia così cieco da non pensare al proprio futuro, accontentandosi delle quote di contrattualizzati e pensionati, che via via spariranno e quindi cancelleranno anche la linfa che oggi garantisce rimborsi, viaggi, convegni e via discorrendo?

Ma soprattutto: possibile che dopo vent’anni di giornalismo, io mi stupisca ancora e mi chieda queste cose?

Ci credo che poi anche il movimento e l’organizzazione “dal basso” più entusiasta del mondo si deprime…

Se il collega Stefano Tesi si vede come novella Cassandra (e gliene va dato atto), personalmente mi sento più a mio agio nei panni di Giovanni Battista cui si riferisce la profezia di Isaia “vox clamantis in deserto”.

Amen.

Un commento

  • Caro Giovanni Battista, convergenza assoluta di idee, as usual. E medesime domande. Nonchè medesime noia nel ripetere sempre le stesse cose ed assistere sempre agli stessi balletti (donde la rarefazione dei post sull’argomento).
    sarebbe bello se qualcuno almeno provasse a darci qualche risposta.
    Ma come scrissi in un post di molto tempo fa, citando Sylvia Plath: “Prego Dio, ma il cielo è vuoto”.

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