Un altro tuffo nella tradizione culinaria delle campagne abruzzesi: le “ciammaiche” di terra con la “pizza scima”

Riscoprire e valorizzare le tradizioni culinarie, oltre a preservarle nella loro integrità, è il compito precipuo dell’Accademia Italiana della Cucina, sodalizio che seguo ormai da oltre dieci anni e che mi ha da poco accolto ufficialmente come “postulante”: proprio la settimana scorsa la consulta accademica della delegazione di Chieti ha proposto uno squisito tuffo in una delle tradizioni contadine che ho imparato a conoscere ed apprezzare tardi.

Accolti dalla consueta cordialità dei padroni di casa Cesare e Patrizia, titolari del ristorante (ed anche piccolo albergo) “Sant’Eufemia” a Fara Filiorum Petri, un piccolo-grande scrigno di sapori della tradizione (su tutti, da segnalare, almeno per quanto riguarda il mio gusto personale, il pollo alla birra, specialità molto particolare e di particolare intensità) abbiamo trascorso una serata in compagnia delle lumache di terra (o, come si dice in dialetto, “ciammaìche”).

 

Non è particolarmente semplice riuscire a gustare questo cibo semplice e di tradizione contadina (ma anche montanara), specie se si vuole mangiare quel genere di lumache che scherzosamente chiamiamo “corridore”, in quanto esse sono quelle che fanno capolino ai bordi delle strade e tra l’erba solo dopo un’abbondante pioggia. Quindi non lumache di allevamento.

Particolarmente laboriosa è anche la preparazione di questo piatto, visto che le lumache, una volta catturate, devono essere spurgate con un lavoro che dura non meno di un mese: lo spurgo avviene in maniera del tutto naturale, con il tempo e l’utilizzo di foglie e acqua, pulendo con grande cura l’esterno dell’animale, lasciando poi a macerare in liquido l’intera raccolta.

Una volta ripulite e spurgate, le lumache vanno “rotte in culo” (come disse senza vergogna una signora miglianichese negli anni Cinquanta al microfono di un esterrefatto e divertito Luciano Rispoli che raccoglieva voci e tradizioni dell’Abruzzo contadino in una seguitissima trasmissione radiofonica della Rai), praticando un foro di ridotte dimensioni nella parte posteriore rispetto alla bocca del guscio, cotte in un sugo particolarmente intenso e poi servite a tavola, anche come condimento di un bel piatto di “spaghetti alla chitarra”.

Le lumache vanno rigorosamente mangiate con le mani: per i più raffinati si può utilizzare uno stuzzicadenti per estrarre il mollusco, ma il modo migliore per apprezzarne il sapore è suggendo direttamente dal foro praticato nel posteriore con un forte e deciso risucchio (che non è considerato, almeno in questo caso, gesto di cattiva creanza).

Complemento necessario per gustare il sugo particolarmente aromatico delle lumache di terra è la cosiddetta “pizza scima” (nel senso proprio di “scema”), altra tipicità abruzzese che io adoro: una “pizza” che da tempi remoti ha rappresentato un elemento sostitutivo del pane, ma che ha la caratteristica di essere azzima, cioè preparata senza l’uso del lievito. C’è chi sostiene che la sua origine sia dovuta alle numerose comunità ebraiche storicamente presenti in Abruzzo.

La denominazione di “pizza scima” è caratteristica dell’area teatina e frentana, mentre nelle province di Pescara e di Teramo è nota col nome di “pizza scive” e in provincia dell’Aquila, in particolare a Civitaretenga (piccola frazione del più noto Comune di Navelli, dove si coltiva il migliore zafferano del mondo) è detta “pizza ascima”.

La “pizza scima” è una bassa focaccia bianco-dorata, con rilievi romboidali in superficie, realizzati con il coltello al termine della fase di lavorazione dell’impasto al fine di renderla più facilmente porzionabile nel momento del consumo. Gli elementi costitutivi di base devono restare farina, olio extravergine di oliva, acqua e sale. L’assenza di lievito nella preparazione conferisce alla “pizza scima” un aspetto piuttosto compatto, mentre l’aggiunta di olio dona fragranza e la rende croccante. Ideale da inzuppare nel sugo, ma anche per accompagnare il baccalà con i peperoni.

Insomma, una serata di grande intensità, alla riscoperta di sapori genuini che difficilmente si possono gustare spesso anche nel nostro Abruzzo.

Ideale per annaffiare questo lauto pasto, abbiamo accompagnato le lumache con un rosato abruzzese “nuovo”, di buon corpo e dal sapore fruttato e un rosso Montepulciano d’Abruzzo di particolare intensità. La chiusura è stata affidata ai tipici “cavicioni”, dolcetto natalizio che si fa in tutte le case abruzzesi, con il ripieno di marmellata d’uva e cioccolato, “innaffiato” con il vino cotto.

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