Riforma dell’Ordine dei Giornalisti: il vero nodo è nell’accesso!

Dall’analisi, anche solo superficiale, dei tanti commenti che mi giungono sul blog e nella mia casella di posta elettronica e degli interventi che si leggono sui vari siti, specializzati o no, si ricava che il grande allarme che serpeggia (giustamente) tra i pubblicisti riguarda principalmente il nodo dell’accesso alla professione: la stragrande maggioranza, infatti, vorrebbe trovare una strada per poter giungere ad iscriversi nel registro dei praticanti e dopo 18 mesi giungere all’esame professionale. 

Non smetterò mai di sostenere, al di là della questione contingente contenuta nei decreti Berlusconi e Monti, che la vera rivoluzione che serve è una revisione complessiva della legge istitutiva dell’Ordine dei Giornalisti che possa ridisegnare i “confini” di una professione che si è evoluta in maniera impressionante e che oggi è completamente diversa da come la tratteggiava il Parlamento nel 1963.

Sicuramente nelle nuove modalità di accesso una parte importantissima la deve avere la formazione: impossibile assistere, da settimane, ad interventi e domande in cui si confonde Ordine, albo, elenco, praticantato, per citare solo le questioni strettamente legate alla nostra professione. Poi ci si stupisce se violazioni deontologiche di gravità estrema (come il continuo riferirsi alla figlia di Salvatore Parolisi e Melania Rea con nome e cognome, in spregio della Carta di Treviso, o la recentissima pubblicazione delle foto del ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi, dove anche il buon gusto viene meno) vengano accolte dai giornalisti stessi con uno stupito “Embè? Che fa?”.

Siamo una categoria che ama pontificare, ma non ama studiare.

Ecco: di fronte a questa ondata di ignoranza (nel senso letterale del termine, ossia “mancata conoscenza”… ed anche il fatto che bisogna sempre precisarlo per non suscitare risentimenti di offesa dimostra come l’ignoranza regni sovrana), perdo anche la mia netta contrarietà ad un percorso universitario che possa costituire la chiave di accesso alla professione: ma se di università si deve parlare, sia un corso di laurea regolare, non un master costoso ed élitario. E sia a numero chiuso, molto stretto, perché non possiamo continuare ad alimentare la macchina delle illusioni: il mercato giornalistico si va sempre più restringendo, quindi il “sistema” non si può permettere una “invasione” di giornalisti.

Rimango comunque dell’idea che il mestiere si impari principalmente “sul campo”: quindi, occorrerà pensare ad un percorso formativo che possa mixare nella giusta dose formazione, studio, approfondimento, ma anche pratica, quella vera. Non posso continuare a sentire giovani aspiranti giornalisti che quando accetto di far provare in una delle mie redazioni, mi dicano: “Allora che mi dai da scrivere?”. Che ti dò da scrivere? Ma esci e vai a cercarle, le notizie!

Perché il mestiere non è tanto scrivere, per quello basta un po’ di allenamento e tanta lettura, quanto piuttosto avere la capacità di “fiutare” le notizie, trarle dalla vita quotidiana, individuarle nel flusso magmatico dei fatti.

Tuttavia, so bene che questo rimarrà un semplice “sfogo notturno e festivo”: difficilmente in Parlamento ci si metterà d’accordo su una riforma organica dell’Ordine dei Giornalisti né penso che il gioco dei veti incrociati, che pare profilarsi in Consiglio Nazionale, possa portare a qualcosa di buono.

Puntiamo a quanto possibile ottenere: una tutela dei pubblicisti che svolgono la professione come esclusiva, o almeno prevalente, la revisione approfondita degli elenchi (che sarebbe un obbligo di legge per ciascun Consiglio regionale dell’Ordine), il superamento dell’inamovibilità del pubblicista dopo 15 anni di ininterrotta iscrizione.

Chiedo troppo?

12 commenti

  • Ilaria

    Finalmente qualcuno che ha capito che il vero problema è quello dell’accesso! Io sono pubblicista, iscritta dal 2007 ( e quindi è dal 2005 che scrivo in maniera continuativa). Dal 2005 ho sempre esercitato la professione collaborando con testate locali, quotidiani, tv e radio, lavorando tutti i giorni dal lunedì al sabato. In questi anni però non ho mai potuto l’opportunità di dare l’esame di stato per diventare professionista, non per mancanza di volontà, ma perchè nessuno mi ha mai fatto un contratto o assunto in redazione. Che colpa ne ho?
    Anche le soglie di reddito per la retribuzione, non dico che non siano giuste (anzi lo sono) ma per un pubblicista sono difficilissime da raggiungere. Ci sono quotidiani nella mia città che pagano 6 euro al pezzo, per arrivare a più di mille euro al mese uno ne deve scrivere di articoli… I quotidiani che invece per apparire più seri pagano di più ( anche 30/40 euro ad articolo) però non te ne fanno scrivere più di 4 o 5 al mese, così sei al punto di prima. Se dalla carta stampata si passa alla televisione o alla radio le cose non vanno molto meglio. Ho lavorato per più di un anno per una tv dando la mia disponibilità a tempo pieno e andando tutti i giorni in redazione ( come altri), ma anche lì la massima retribuzione che si poteva raggiungere era di 900 euro al mese, quindi niente praticantato. E non potevo neanche pensare di sommare altre collaborazioni, perchè se andavo in redazione dalla mattina alle 10 e uscivo la sera alle 19 come facevo contemporaneamente a collaborare con altre testate?
    Non voglio annoiarti ancora con i miei racconti, tutto questo solo per dire che per un pubblicista diventare professionista è davvero come vincere un terno al lotto. Penso che sarebbe davvero un’ ottima soluzione dare la possibilità ai tanti pubblicisti che ci sono di accedere all’esame di stato, sulla base della professione che effettivamente si esercita e al di là della soglia di reddito che si riesce effettivamente a raggiungere. E’ dal 2007 che vivo in questo in Limbo, vorrei finalmente venirne fuori.

    • Capisco e conosco il problema, però converrai che “dare la possibilità” ai pubblicisti (rectius: a tutti i i pubblicisti e sai benissimo che ve ne sono di pessimi, ciarlatani, dopolavoristi, marchettari, etc) di dare l’esame senza una ragionevole soglia di reddito significa travasare cani e porci dai pubblicisti ai professionisti. Non mi parrebbe un grande passo avanti. Nè capisco che vantaggio verrebbe ad una come te dal trovarsi in concorrenza con mille altri colleghi ribassisti, sebbene “professionisti”. Perchè il punto è sempre quello: certo che è impossibile raggiungere la soglia di reddito a botte di 6 euro a pezzo. Ma la domanda è: con 6 euro a pezzo almeno ci si vive? La risposta è: no. Quindi dove starbbe la principalità del reddito? E perchè si accettano compensi che non ti consentono non solo di diventare professionista, ma nemmeno di campare? E morire di fame da professionisti è diverso che morire di fame da pubblicisti?
      Lo so, è un discorso antipatico ma bisogna pur farlo.
      E’ per questo che a mio parere il sistema dovrebbe funzionare proprio al contrario di quanto dici: se fosse esplicito che con compensi da 6 euro a pezzo (6 per dire: 10, 15 o 30 non fa differenza) non si diventa pubblicisti e, a maggior ragione, neppure professionisti, quasi nessuno, se non chi lo fa per puro hobby, accetterebbe quelle cifre. Per cui gli editori sarebbero costretti a pagare somme più alte, offrendole naturalmente a chi le vale. La conseguenza sarebbe che in giro ci sarebbero molti meno “quasi giornalisti” e molti più giornalisti che realmente campano della propria professione, professionisti o pubblicisti che siano. Ci sarebbe inoltre un numero molto più alto di pubblicisti con il reddito sufficiente ad accedere all’esame di stato.
      Si torna sempre lì: l’operaizzazione del lavoro giornalistico non giova a nessuno, però tutti sono disposti a fare l’operaio per uno stipendio da fame. Ma allora, se uno sceglie questa strada volontariamente, di che si lamenta?
      Si dovrebbe fare come ho visto fare a tanti bravissimi colleghi: resisi conto che, a prescindere dalle capacità, nel sistema non c’è spazio, hanno cambiato lavoro e ora sono molto più contenti, soddisfatti e ricchi di prima.

      • Ilaria

        Premesso il fatto che tutti se cambiassimo lavoro ( non solo i pubblicisti sfruttati e sottopagati, ma anche i professionisti che non si sentono inseriti come vorrebbero) saremmo più contenti, soddisfatti e ricchi di prima, permettimi di fare alcune brevi osservazioni.
        Tu mi chiedi, se UNO SCEGLIE QUESTA STRADA VOLONTARIAMENTE DI CHE SI LAMENTA? Ok, di lavorare come un professionista ma gratis e senza nessuna prospettiva è una mia scelta della quale mi sono lamentata sempre poco e sporadicamente, ma non sarebbe invece una scelta altrettanto libera quella di trovarmi da un giorno all’ altro priva della possibilità di svolgere il lavoro che sto facendo da sette anni. Perchè così, non una mia scelta, ma l’applicazione iniqua di una legge mi costringerebbe a buttare via sette anni della mia vita, durante i quali ho lavorato per un obiettivo che non mi sarà mai consentito di raggiungere. Se permetti, qualche ragione di lamentarmi ce l’ho.
        Passiamo ai tanto esecrati pubblicisti, PESSIMI, CIARLATANI, DOPOLAVORISTI, MARCHETTARI, ECC… Ok, ce ne sono, non lo metto in dubbio. Ma non si può fare di tutta l’erba un fascio. Perchè allora non parliamo dei tanti professionisti, adeguatamente retribuiti, che se ne stanno comodamente dietro a una scrivania senza far nulla, iperpagati, garantiti, vessacollaboratori, campioni della casta, e che se ne vanno pure alle terme ( quando l’ho saputo non ci volevo credere) con i soldi che i versiamo alla previdenza?
        Ribatto all’ultimo punto. Se si fa fuori la gente come me, che guadagna 6 euro al pezzo o niente, GLI EDITORI SAREBBE OBBLIGATI A PAGARE SOMME PIU’ ALTE. Siamo sicuri che non sia solo un’illusione? Alla fine gli editori continueranno a sfruttare i giovani e i precari, perchè tanto qualcuno che si fa abbindolare per scelta o per necessità alla fine ci sarà sempre.
        Concludo. Perchè non dare a chi è già pubblicista la possibilità di diventare finalmente professionista, senza tante sbarrature di reddito? Chi vuole veramente esercitare la professione si metterà a studiare e darà l’esame, chi invece vuole fare solo il marchettaro penserà che non ne varrà la pena e si darà ad altro. Se non si vogliono fare altri pubblicisti, può essere una scelta condivisibile, ma non trovo giusto che chi ha già cominciato a seguire una strada si trovi all’improvviso senza la terra sotto i piedi. Se potessi tornare indietro e sapessi che ci sono queste regole farei la scuola di giornalismo, ma ormai è troppo tardi. NON E’ GIUSTO CAMBIARE LE REGOLE IN CORSO D’OPERA, SENZA ALMENO LASCIARE APERTA UNA VIA D’USCITA. Perfavore, pensateci.

        • vittorio

          Hai proprio ragione Ilaria! mi chiamo Vittorio e vivo la tua stessa situazione, pubblicista da 8 anni, scrivo sui giornali locali da 10…Un limbo insopportabile, non ne posso piu’ di sentire proteggere la casta dei professionisti, a suon d’ipocrisia..Hanno il dovere di riconoscere i nostri sacrifici, indipendentemente dal reddito conseguito! Le nozioni acquisite con la pratica in redazione, del resto, ci hanno preparato alla professione, la dignità della professionalità maturata non si riassume certo con la misura della ricompensa a fine mese…Qui stiamo parlando di libero accesso alla professione…Lo cambi lei il lavoro, signor Stefano! E non mi importa se non guadagnerò il becco di un euro…Io, noi pubblicisti in attività, meritiamo di essere considerati giornalisti professionisti a tutti gli effetti… Bando all’ipocrisia e alle stupidaggini…Basterebbe distinguere tra i pubblicisti per titolo, che non sono attivi e non pagano i contributi all’Inpgi e gli altri, noi, i pubblicisti per esercizio, in regola con l’Inpgi, fantasmi delle redazioni, lavoratori onesti e appassionati a cui si nega vergognosamente il riconoscimento umano e professionale….Basta mettetevi una mano sulla coscienza e assorbite i pubblicisti in attività tra i professionisti!!!!!!!!

    • Antonello Antonelli

      Caro Stefano, ti ringrazio dell’articolata e motivata risposta, che condivido in toto. Una sola annotazione, diciamo “giuridica”: purtroppo, a rigor di legge 69/63, il pubblicista non deve né frequentare corsi né sostenere colloqui, ma solo dimostrare di avere scritto sufficientemente e di essere stato pagato congruamente. Altro non viene detto nel dettato legislativo: il colloquio e il corso, introdotti dalle varie regioni (anche la mia, con mia grande soddisfazione, perché li ritengo strumenti importanti di qualificazione professionale, anche se minima), potrebbero essere aggirati. Basterebbe un buon avvocato…

  • Pierpaolo

    Il mestiere “si impara sul campo” è proprio lo slogan che permette a editori, direttori e capiservizio di prendere chiunque a prescindere dal merito: anche se non sa fare niente, “imparerà sul campo”. Prova a rifletterci.

    • Antonello Antonelli

      Il mestiere – ho scritto – si impara “principalmente” sul campo. Solo che io avevo in mente il modello che a 18 anni mi ha “tirato su”, quello della redazione di provincia, che ormai sta scomparendo. Per quello sono sempre più orientato ad un modello che possa prevedere sia formazione professionale di tipo universitario sia una formazione tecnica “sul campo” guidata da giornalisti di lungo corso. Forse però è un’utopia… e quindi si andrà a finire alla sola università per l’ingresso nella professione.

      • Pierpaolo

        A me non interessa capire se il modello formativo “redazione di provincia” sia buono o no (io penso di no, ma non è questo il punto). La domanda è: diventa un alibi per giustificare, anche ai cdr, qualsiasi scelta di personale? Ovviamente la mia risposta è sì. Sei d’accordo o no?

    • Se chi non sa far niente e si fa “prendere” sapesse, però, che poi ciò non gli basta a diventare giornalista, forse non si farebbe più prendere e direttori, etc sarebbero costretti a “prendere” quelli bravi. I quali, a loro volta, se sapessero che non essere pagati abbastanza non basta per diventare giornalisti, non si farebbero più “prendere”. Chiuso il ciclo, solo chi sa e si fa pagare il giusto verrebbe “preso” e di conseguenza solo questi potrebbero diventare giornalisti.

  • Andrea

    A mio avviso, solo partendo dall’accesso si potrebbe fare una riforma seria. Insomma: se fai il medico o l’avvocato devi fare un certo tipo di studi, per un certo numero di anni, e poi un esame di stato. Uguale per tutti. Per fare il giornalista (avere la tessera da professionista) le vie sono infinite: la preparazione non conta, il tirocinio (la formazione sul campo) nemmeno, l’esame in qualche modo lo si passa. La mia domanda, però, è un’altra. Vi faccio il mio caso: pubblicista da dodici anni, non ho voluto fare l’esame quando ne avevo il reddito per scelta, oggi faccio il direttore di una rivista culturale e scrivo qui e là. Tutto a partita iva, senza reddito minimo, facendo altre cose per campare. Bene: a me fare il giornalista a tempo pieno piacerebbe, tornerei volentieri a farlo. Ma a 35 anni non ho né la voglia né la possibilità di lavorare per due soldi e non vedo in giro uno straccio di progetto editoriale decente. Dal sistema mi sono auto-sospeso, diciamo così, ma tornerei dentro volentieri. Che fine faccio? Vengo spazzato via? Voglio dire: quelli che oggi non accettano di buttare via la loro capacità (professionalità?) e vivono facendo altro (e vi assicuro, nella mia generazione ce ne sono tanti) perderanno per sempre la possibilità di fare i giornalisti, avendo magari buoni curriculum e buoni studi alle spalle?

  • Nicholas

    Buongiorno a tutti, ho iniziato il praticantato da circa 3-4 mesi e non ho ancora visto 1 Euro, ma a dir la verità non l’ ho mai neanche preteso.
    Però ho scoperto che per iscriversi all’ albo è necessario presentare la DOCUMENTAZIONE DEI COMPENSI; rischio di non poter presentare la domanda se non vengo pagato??
    Per favore rispondete, anche via mail a nicholasluigicapra@gmail.com . Grazie a tutti.

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