Tre strade possibili per i pubblicisti odierni ed una riforma necessaria

Ha suscitato un dibattito acceso ed un vespaio di polemiche l’ultima norma del Governo Monti in maniera di ordini professionali, che per i giornalisti si tradurrebbe (le interpretazioni sono ancora discordanti, ma pare che l’effetto sia proprio questo) in una “scomparsa” ex lege dei pubblicisti, che notoriamente costituiscono il grosso delle file degli iscritti all’Ordine.

Ma che fine faranno gli oltre 80 mila pubblicisti oggi iscritti?

A seconda delle interpretazioni, pare che siano stati prefigurati tre scenari possibili, tra i quali l’Ordine dovrà fare presto una scelta, che tuttavia, secondo me, non potrà prescindere da una riforma complessiva della legge 69/1963 che già era del tutto inadeguata da una quindicina di anni fa, figuriamoci adesso con le nuove norme.

Il primo scenario prefigura il cosiddetto “elenco ad esaurimento”: fino al 13 agosto prossimo, data ultima per l’autoriforma degli ordini secondo i principi della legislazione europea (che prevede inderogabilmente un esame di Stato per l’ingresso in un ordine, questo il punto che cancellerebbe i pubblicisti), gli Ordini regionali continueranno regolarmente a iscrivere pubblicisti. Dal 14 agosto, si bloccano tutte le iscrizioni e l’elenco rimane chiuso fino al suo naturale esaurimento (in 70-80 anni verosimilmente).

Il secondo scenario invece prevede l’emanazione di nuove norme transitorie per l’accesso all’esame professionale: chi, in sostanza, svolge la sola professione giornalistica e vuole continuare a svolgerla in via esclusiva, viene ammesso all’esame di Stato e diventa professionista. Gli altri pubblicisti vengono cancellati dall’albo.

Il terzo scenario, infine, riconfermerebbe ancora l’Ordine con i due elenchi, professionisti e pubblicisti, per essere iscritti nei quali occorrerà comunque un esame di Stato: quello classico per i professionisti, uno nuovo, tutto da inventare, per i pubblicisti.

Personalmente, le mie preferenze vanno per il secondo scenario, che professionalizzerebbe tutta la categoria, impedirebbe di fatto il “secondo lavoro” che troppo spesso ha inquinato e rovinato il mercato e darebbe la possibilità ai pubblicisti che in realtà lavorano, da poco o molto tempo non importa, come professionisti (e spesso molto, ma molto meglio dei professionisti veri), di poter accedere all’esame di Stato e poter continuare la loro professione in via esclusiva.

Tuttavia, ho fondate ragioni per ritenere che sarà percorsa la terza via, che avrebbe il vantaggio di non toccare i pubblicisti attuali (con quel che ne consegue in termini di mantenimento delle quote di iscrizione) e che andrebbe nella direzione, auspicata sin dalla manovra economica di Ferragosto, di migliorare la formazione della categoria (che dal 2012 avrà – finalmente, dico io – l’obbligo di tenere corsi di aggiornamento regolari).

Non va dimenticato, tuttavia, come ricorda giustamente il collega Stefano Tesi nel suo problematico e riflessivo intervento nel suo blog, l’aspetto previdenziale della questione: che fine farebbero i soldi che i pubblicisti, in via di sparizione, hanno versato all’Inpgi? In che modo si garantirebbe il monte previdenziale con il quale si pagano e si pagheranno le pensioni dei giornalisti?

A questo punto, “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca” (cit. dal “mitico” Giulio Andreotti), non è che questa è una norma che punta a incamerare i ricchi e sicuri  introiti dell’Inpgi per riversarli nel calderone, perennemente deficitario, dell’Inps, come prefigurava l’editoriale di “Italia Oggi” di ieri?

Qualsiasi strada sarà percorsa, ritengo comunque imprescindibile che il Parlamento si metta in testa di riformare la legge istitutiva dell’Ordine dei Giornalisti per rendere organismo e categoria in grado di affrontare le sfide del futuro senza chiudersi a riccio sul presente e sugli “old media”. Questa è la battaglia più dura, questa è quella che vale più la pena di combattere, ma questa è anche quella che non ci vede protagonisti, poiché sono altri (i parlamentari) ad avere in mano le leve della riforma.

27 commenti

  • Anche io sono per la seconda ipotesi. L’idea di un elenco speciale per giornalisti nel tempo libero, come è stato in questi anni quello dei pubblicisti, è veramente paradossale. C’è chi fa il giornalista (anche negli uffici stampa) e c’è chi fa un altro mestiere, collaborando nel tempo libero anche con i giornali. Non vedo perchè i secondi debbano essere iscritti all’ordine.
    Mi sembra molto più sensata ammettere i pubblicisti che fanno i giornalisti come mestiere all’esame di stato, e fare un elenco unico. Mi preoccupa, però, il parametro del “mestiere”: quando è che un pubblicista fa il giornalista in via esclusiva. Fino ad oggi il parametro per il praticantato d’ufficio ai pubblicisti è stato il reddito. Se dall’attività giornalistica trai un guadagno annuo pari a quello di un praticante, ti iscrivo. Mi sembra un criterio inapplicabile viste le tariffe oggi praticate per i pubblicisti dalla maggior parte degli editori. Io penso che bisognerebbe lasciare ai pubblicisti la scelta. Chi vuole transitare all’albo unico, previo esame, lo fa, precludendosi la possibilità di iscriversi ad altri albi professionali (avvocato, commercialista, eccetera) e affermando, quindi, di fatto che quella è la sua professione.

  • Demos

    Ciao Antonello, sarò tutt’altro che sintetico ma questo post è talmente ben argomentato che merita un dibattito.
    Da undici anni vivo esclusivamente di questo mestiere e sono dunque a tutti gli effetti un falso pubblicista, uno la cui storia professionale dimostra quanto la legge 69/1963 sia fuori dal mondo: io, che mi occupo di sport e pure per testate notissime, sono equiparato ai cialtroni che vanno in tv a fare gli opinionisti dopo avere chiuso, alle 19, la saracinesca della salumeria, per dire. E, sia chiaro, vivendo per scelta esclusivamente di giornalismo, guadagno giusto quanto mi basta per sopravvivere. So benissimo, peraltro, di essere più fortunato di tanti colleghi.
    Però, allo stesso modo, ritengo un grave errore di prospettiva lo scenario numero due che tu prevedi e auspichi.
    Sono fra coloro che ha partecipato, a Firenze, alla due giorni cositutiva della carta di Firenze che andrà in vigore dal 1 gennaio (ben venga, era ora!) ma, ad ogni buon conto, nutro forti dubbi che possa produrre un miglioramento economico. La stessa cosa per l’equo compenso. Mi spiego: fossi un editore, piuttosto che pagare di più i collaboratori, li eliminerei facendo scrivere “da dentro” buona parte di ciò che ora viene appaltato fuori. Questo perché i dipendenti già li pago, e li pago bene. Ne va della qualità della testata? Fa niente, perché gli editori già ragionano così.
    Ho visto, negli anni, diminuire i compensi a pezzo e calare gli spazi, pertanto sono consapevole che non potrò vivere solo di questo, a causa dei problemi strutturali della professione. Secondo il tuo scenario numero 2 e la mia previsione, dovrei vivere da professionista solo – diciamo – con 700 o 800 euro al mese, senza cercare altre entrate che non siano giornalismo (altre entrate che mi arriverebbero, appunto, da un impiego dopolavoristico). Capisci bene quanto sia improbabile campare così.
    Allora perché, al netto dell’esame obbligatorio, non proporre di levare l’esclusività della professione, per chi non è assunto come dipendente? In caso contrario, lo scenario numero 3 mi sembra il più democratico.
    Buon lavoro,
    Demos

  • Caro Antonello,
    su una cosa siamo certamente d’accordo: la questione è spinosissima.
    Mi permetto tuttavia di prefigurare un quarto scenario, che è un compromesso tra i tre che hai delineato.
    Non c’è dubbio che da molto tempo la categoria dei pubblicisti ha perduto ogni senso: ci stanno dentro dai professionali ai salumieri, gente che cioè non ha nulla in comune tranne il fatto di non essere assunta in un giornale. Smarrita, perchè nel frattempo la professione si è evoluta e molto, la funzione originale: quella di inquadrare in norme/doveri “giornalistici” chi il giornalista lo faceva occasionalmente e che il pane se lo guadagnava in altro modo.
    Il buffo è che oggi l’occasionalità è rara, ma è rimasta la circostanza che il reddito del 90% dei pubblicisti nasce fuori dalla professione, perchè neppure chi la esercita a tempo pieno riesce a ricavare quanto basta per vivere.
    Vedo quindi due soluzioni di riforma convergenti che vanno a integrare il quarto scenario:
    1) ammissione all’esame di stato per professionisti ai pubblicisti che esercitino la professione in modo esclusivo o prevalente e ricavino da tale attività almeno il 75% del proprio reddito, purchè non inferiore ai 10mila euro annui.
    2) revisione dell’elenco pubblicisti e cancellazione di chi non dimostra un’attività non prevalente, ma continuativa e congruamente retribuita, mantenendo tali requisiti (e creando un esame ad hoc) per i nuovi ingressi.
    Tutti gli altri, fuori dall’OdG (anche perchè non c’è bisogno di essere giornalisti per scrivere ogni tanto articoli sui giornali, gratis o anche a pagamento).
    Ciò porterebbe due vantaggi: una ricompattazione verso l’alto e un recupero di credibilità della categoria da un lato, uno sfoltimento drastico, ma non esiziale per l’Ordine.
    Sia chiaro: è una soluzione tanto semplice che poteva, se si fosse voluto, adottarla da anni. Ma, appunto, siamo in Italia, dove le riforme si fanno solo in presenza delle grandi emergenze.
    Tutto ciò in teoria.
    In pratica ho paura che un po’ per l’ottusità dell’intera categoria, un po’ per i veti incrociati, un po’ infine per la miope difesa della categoria da parte dei pubblicisti “militanti” (cioè le cariatidi che fingono di rappresentare i pubblicisti in consiglio nazionale ), alla fine non accadrà nulla e qualcuno deciderà per noi, facendo danni. E cogliendo al volo l’occasione per nazionalizzare la cassa previdenziale.

  • Patrizia

    salve
    avrei un’altra domanda da porre: che fine fanno le testate giornalistiche che hanno come direttore un giornalista pubblicista?

    • Antonello Antonelli

      Bella domanda! La risposta però sarà in un provvedimento del Governo o in un pronunciamento del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti che è ancora tutto da vedere… Fino al 13 agosto potrà succedere di tutto! Io cercherò di seguire e di aggiornarvi sulla situazione: è l’unica cosa che posso fare.

      • Patrizia

        Grazie, seguirò gli aggiornamenti perché mi interessa particolarmente

        • Alessandra

          Grazie a lei per questo post così chiaro, per fortuna c’è qualcuno che salvaguarda l’informazione.
          La notizia della riforma arriva nei giorni in cui ricevo il primo compenso per i primi 3 mesi di “gavetta” in vista del biennio per diventare pubblicista. Può immaginare lo sconforto. Lo sconforto per chi, laureato specialistico nel novembre 2010 (quindi, secondo legge, fuori dal periodo di neolaurea e senza più possibilità di effettuare tirocini con il patrocinio delle Università, come se a laurearsi in tempo uno ci perdesse anche), da mesi cerca di inserirsi in una redazione e, una volta colpito il bersaglio, si impegna per riuscire al meglio, finché non pone questo primo mattone, la prima paga che regolarizza il tutto. Un mattone che a quanto pare non reggerà niente, perché i miei due anni per diventare pubblicista verranno troncati sul nascere.
          Eppure sono laureata con 110 e lode in comunicazione, sogno di fare questo mestiere da anni e sono convinta che sì, un esame di stato sia necessario e professionalizzante per tutti. Cosa c’è che non va allora? C’è che in questo Paese per entrare come praticante in una redazione e dunque accedere all’esame di stato dopo 18 mesi, nella maggior parte dei casi ci si deve iscrivere a una scuola di giornalismo, molte volte privata, che costa migliaia di euro. Perché un corso universitario apposito non esiste, perché se si dice in giro che si è laureati in comunicazione, la gente ride e dice “ah, merendine”. Perché ai centri per l’impiego ti chiedono cosa vuoi fare, tu dici “la giornalista” e ti senti chiedere “e come si fa?”. Ecco, io ora mi trovo in questa situazione: non ho uno stipendio regolare nè certo, dopo 5 anni di università, chiederò altri soldi ai miei genitori per una scuola di giornalismo che mi permetta l’accesso all’esame di stato. Avevo optato per la strada della pubblicista, che sembrava appena appena aver preso la sua giusta rotta. Troncata sul nascere. E così la prima paga per ciò che ho scritto con impegno e coscienza negli ultimi 3 mesi non avrà alcun valore futuro, se non quello di un caffè al giorno, giusto quello che mi posso permettere, 25enne laureata a pieni voti, disoccupata, senza apparenti speranze di diventare giornalista.
          Se c’è qualcuno in grado di smantellare la mia negativissima esperienza personale, sarò ben lieta di leggere e cercare nuovo ottimismo. Grazie.

          • Manuel

            Condivido anche le virgole, Alessandra. Un laureato con 110 e lode, a quattro mesi dalla fine del praticantato biennale.

          • Antonello Antonelli

            Bisogna tenere duro se questa è la sua passione: non è facile, in un mondo che gira a mille e che stritola tutto e tutti. Attendiamo ancora certezze dagli organi competenti, non è detto che la sua aspirazione possa essere stata definitivamente troncata.

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  • Fabrizio Dell'Orso

    Ho letto tutti i contributi fin qui … e quindi mi permetto di sottolineare una circostanza che mi sembra non sia stata posta nel giusto risalto.

    Faccio una piccola, forse inutile, premessa. Almeno per quanto è in mia conoscenza, l’accesso al praticantato, e quindi all’iter dell’esame di stato e al conseguente Ordine dei Professionisti, è da tempo immemore legato a filo doppio alla condotta etica dell’editore della testata per la quale si (inizia) a lavorare. Se l’editore è un vero Editore, la maiuscola qui non è casuale, dopo un minimo periodo di reale “praticantato” teso a saggiare dai colleghi interni le potenzialità dell’aspirante giornalista, le fasi di iscrizione all’albo di praticanti e quella successiva dell’esame di stato sono il naturale percorso a cui un neo giornalista si vede avviato. Ma questo non accade sempre. Anzi.
    La seconda realtà, infatti, è data da editori che preferiscono non riconoscere lo stutus di giornalista ai loro dipendenti, inquadrandoli come co.co.co, come collaboratori saltuari, o assumendoli sì come … dipendenti, ma inquadrandoli per mansioni diverse: ad esempio, a me è capitato di lavorare, 10 anni fa, con colleghi tutti -inspiegabilmente? – grafici. Come molti ben sanno, questi colleghi, che non hanno avuto la fortuna di aver incontrato un vero Editore, devono abituarsi all’idea di faticare davvero tanto per farsi riconoscere lo status di giornalista. Iniziano chiedendo l’attestazione dal direttore responsabile di tutti i pezzi siglati da aggiungere alla lista di quelli già pubblicati con firma in calce, per poter poi presentare dopo il canonico periodo minimo dei 24 mesi la domanda come pubblicisti. Altri devono lottare passando dal tribunale del lavoro, dimostrando a loro spese di essere davvero una risorsa esclusivamente impegnata in quella determinata redazione. E mi fermo qui, perché gli esempi di questi riconoscimenti “coatti” potrebbero essere numerosissimi…

    Oggi, pertanto, abbiamo una situazione più complessa: gli stessi “professionisti” possono essere suddivisi in due categorie. Quelli che hanno avuto la fortuna di vedere riconosciuta da un vero Editore la loro professione, e quelli che sono diventati professionisti solo perché hanno frequentato una delle tante (oggi) scuole di giornalismo che, grazie al noto escamotage del finto giornale interno, permette l’iscrizione all’albo dei praticanti, aprendo al termine l’accesso al tanto bramato esame di stato. I primi sono quelli che realmente hanno maturato una esperienza sul campo, tanto che un vero Editore li ha assunti, i secondi -dovendo tutto ancora dimostrare- al momento della proclamazione restano sostanzialmente degli inesperti (perché nessun VERO editore ha fino a quel momento commissionato loro un servizio, inchiesta, ecc). Tanto che dopo il patentino di Professionista, restano in alcuni casi a far la muffa a casa…

    I “pubblicisti”, specialmente quelli che non hanno altre fonti di reddito, sono a mio parere la vera pancia della professione. Conoscono tutte le conseguenze del loro impegno e quindi del loro valore, perché nessun editore mai pubblicherà i loro lavori se non avranno un minimo interesse (facendo le debite esclusioni per le storture del sistema…). Spesso però questi “operai” del giornalismo sono pagati malissimo, e a volte nemmeno pagati. Non hanno uno straccio di tutela, eccetera, eccetera.

    La mia domanda a questo punto è una sola: semplice, quasi banale. Perché non dare ad ogni pubblicista (magari con un minimo di esperienza documentata dalla semplice anzianità di iscrizione all’albo, più che legata al reddito) di sostenere un esame di stato al pari degli studenti delle scuole di giornalismo e di tutti gli altri colleghi praticanti iscritti d’ufficio dalle case editrici più serie?
    Se si vuole tutelare il valore della professione, ed evitare la scarsa professionalità (come quella di certi pubblicisti che fanno incetta di incarichi come Direttore Responsabile di testate di quartiere senza nemmeno sapere nulla dei risvolti legati all’incarico), questa strada dovrebbe essere – a mio modestissimo parere -prioritaria.
    Diversamente, l’operazione assomiglierà troppo a qualcosa che prende inizio con la scusa di determinazioni europee per fare ordine nella nostra professione seguendo tutte altre logiche. E – ovviamente non sfugge – tutt’altre finalità!

    • Antonello Antonelli

      Facendo la tara ai numerosi errori di attribuzione (lo “status” di giornalista non lo riconoscono gli editori, ma solo l’Ordine attraverso delle norme dettate dalla legge), manca nel ragionamento fatto il terzo tipo di professionisti, i freelance che hanno potuto accedere al registro dei praticanti in quanto svolgono la sola professione giornalistica e dimostrano, con i vari contratti che hanno (anche tutti da co.co.co., come è capitato a me), di guadagnare tanto quanto un praticante. La mia proposta ricalca quella appena da lei espressa: far accedere all’esame di Stato i pubblicisti che svolgono la professione come esclusiva. Ci riusciremo? Vedremo… spero che questo dibattito che si sta creando gioverà a far comprendere l’urgenza di una riforma a chi di dovere!

  • gloria maggioni

    pubblicista da 25 anni – diretto e creato molte testate – tutto sempre pagato all’ordine ed altro ancora. lavoro da anni come “giornalista” x una testata locale con tutto pagato. grazie all’isee basso posso avere x la scuola di mio figlio molti rimborsi. ho 56 anni – a causa di un cancro ma ora sto bene non posso permettermi di cercare altri lavori – cosa posso fare ora?

    • Antonello Antonelli

      Per ora solo attendere. Stiamo discutendo ancora di ipotesi. Deve ancora partire un confronto serio e nelle sedi istituzionali proprie. Continui a seguire l’evoluzione del dibattito. Io mi impegno a farlo ed a proporre sul mio sito sintesi e posizioni. Grazie della sua testimonianza!

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  • Michele Scolari

    Concordo pienamente con Fabrizio dell’Orso sulla distinzione tra editori con la maiuscola e con la minuscola. E posso solo dire che di Editori (con la maiuscola) che mettono a praticantato i più meritevoli o quelli che comunque dimostrano di saper fare sono sempre meno, mentre sono sempre più i casi di persone messe a praticantato per “conoscenza” o perché iscritte a qualche partito (alla faccia dell’imparzialità del redattore sulla quale ti fanno una testa così al corso per l’esame), mentre sono sempre più i collaboratori che magari si fanno 10 ore di redazione giornaliere (con impaginazione compresa) e neanche si vedono ‘valorizzati’ con un co.co.co. ma vengono pagati a pezzo e nonostante ciò non fanno mai storie, in taluni casi lavorano meglio dei redattori ordinari (art. 1), stanno sul posto anche nei giorni festivi (quando i ‘praticanti’ paraculati sono bellamente in ferie), non si lamentano di voler andare a casa prima di una certa ora, fanno quello che gli si dice bene e con precisione per un compenso che non basta neanche per fare la spesa al supermercato… Nei confronti di queste situazioni l’Ordine cos’ha intenzione di fare??????
    Avrei ora una domanda per Antonelli. Come ha giustamente riportato, “il secondo possibile scenario di un provvedimento verso l’albo pubblicisti prevede l’emanazione di nuove norme transitorie per l’accesso all’esame professionale: chi, in sostanza, svolge la sola professione giornalistica e vuole continuare a svolgerla in via esclusiva, viene ammesso all’esame di Stato e diventa professionista. Gli altri pubblicisti vengono cancellati dall’albo”. Anche a me parrebbe una soluzione sensata ma con un dubbio. Io sono pubblicista, da circa 7 mesi sto ricoprendo le mansioni di un redattore ordinario (il giornalismo è la mia unica attività che esercito quotidianamente con articoli e redazione delle pagine). Teoricamente quindi, in base al secondo scenario, sarei ammissibile all’esame di stato ma il problema è che esercito il giornalismo a tempo pieno solamente da 7 mesi, che diventerebbero 15 ad agosto: non riuscirei quindi entro agosto a ‘collezionare’ i 18 mesi che servono per farsi riconoscere il praticantato d’ufficio abilitante per sostenere l’esame di stato. In questo caso dunque si sa già come l’Ordine intenderebbe procedere? Se ha intenzione di dare la possibilità di sostenere l’esame di stato ai pubblicisti che lavorano sia da molto che da poco tempo, oppure solo a chi ha ‘collezionato’ i 18 mesi necessari per il praticantato d’ufficio. Nel secondo caso, mi sia permesso di far notare, i miei 15 mesi di duro lavoro (come quello di altri che sono nella mia stessa situazione) finirebbe in pappacotta…
    Grazie per l’attenzione. Saluti

    • Antonello Antonelli

      Ma perché punti solo al riconoscimento del praticantato d’ufficio? Se, come spero, con tutte le tue collaborazioni, riesci ad arrivare a 15 mila euro lordi (o anche meno, dipende dalle regioni), perché non chiedi l’iscrizione al registro dei praticanti come freelance? Se la domanda ti viene accolta, farai 18 mesi di praticantato con un tutor che verificherà la tua attività e poi sarai ammesso all’esame di Stato. Questa è la strada che ho percorso io per diventare professionista, pur precario come ero e sono ancora!

  • gloria maggioni

    mancheranno finanziamenti pubblici alle testate – soprattutto a quelle locali e|o cooperative – arriveranno “teste di penna” x non dire di “tagli”. Così l’informazione sarà quella che pagherà gli errori di molte altre testate più “politiche”. Di giornalisti professionisti ne vedo pochi, tutti gli altri “lavorano” , i pubblicisti, con grande passione. Vorrei che la nostra categoria fosse come i tassisti….Invece, silenzio! Dove siete?

  • Ivana

    Anch’io sono per l’ipotesi-soluzione numero due. Il problema sta però nell’impossibilità, non solo mia, ma di tanti, di raggiungere, pur svolgendo questa attività come prevalente, il tetto di reddito fissato per l’accesso all’esame di professionista. Io sono iscritta all’ordine dal 2008 (dopo aver fatto i soliti 24 mesi pagati 10 euro e aver prodotto gli articoli necessari per l’iscrizione), ma in questi ultimi due anni i miei redditi sono scesi in picchiata con un totale di 5000 euro lordi guadagnati nel 2010 e più o meno lo stesso importo per il 2011. In questo caso quale sarebbe la soluzione? Io teoricamente potrei accedere all’esame di Stato se non altro per anzianità, ma mi è precluso perché non ho i requisiti di reddito richiesti. Non sarà mica che tutti noi popolo di precari sotto la soglia di sopravvivenza dopo aver sostenuto l’esame per diventare professionisti continueremo a guadagnare una miseria come prima? Non si può pensare di mandare a casa chi vuole fare questo lavoro, perché dall’altra parte gli editori ti pagano 10 euro a pezzo ma senza di te però il giornale non esce. Trovo che si debba parallelamente discutere anche di equo compenso, non sono disposta a mollare dopo tutti i sacrifici fatti per ritrovarmi senza lavoro (parola grossa) solo perché assieme nell’elenco dei pubblicisti ci sono pseudo giornalisti che fanno questo mestiere per hobby. E’ chiaro che, se avessi avuto la possibilità (reddituale) oggi sarei professionista.

    • Antonello Antonelli

      La mia proposta, cara Ivana, formulata più precisamente nei post successivi a questo, è proprio quello di permettere a tutti i pubblicisti che svolgono la professione in maniera esclusiva, indipendentemente dal reddito annuale o comunque con una soglia molto più bassa di quella attualmente prevista, di accedere al praticantato e poi all’esame professionale. Inoltre, come leggerai negli altri post, anche io sono persuaso della necessità di una legge sull’equo compenso come corollario di tutta l’azione di riforma dell’accesso alla professione.

  • Micaela

    buongiorno, sono grafica in una piccola realtà editoriale, dove ho avuto mansioni di coordinamento e art direction. sono stata assunta nel 2003 come praticante ma per vari problemi che non sto ad elencare, ho fatto scadere i termini per dare l’esame. ho quindi richiesto e ottenuto l’iscrizione all’albo dei pubblicisti senza problemi, (già lavoravo col gruppo da 5 anni).
    sono dipendente da allora e non ho altre collaborazioni esterne, ma solo questo stipendio.. quale panorama per chi è nella mia stessa sitauzione?

    • Antonello Antonelli

      Se il suo contratto è di tipo giornalistico con i versamenti al relativo fondo Inpgi, allora dal 13 agosto si potrà avvalere delle norme transitorie previste dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, così come descritte nel mio post del 20 gennaio, sempre che lei abbia anche tutti gli altri requisiti previsti.

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