Tredici a tavola? Le origini di una superstizione in un mio articolo per “Civiltà della Tavola”

Dopo la conviviale accademica di venerdì 17 luglio 2020, dedicata alla eptacaidecafobia e alle superstizioni in generale, in cui ho tenuto la relazione introduttiva (già pubblicata nel mio blog, basta cliccare qui), si è reso necessario rielaborare quell’intervento per farlo diventare un articolo per la rivista dell’Accademia Italiana della Cucina, che aveva bisogno di qualche “correzione di rotta” in modo da renderlo pubblicabile. Così è nato un articolo che in gran parte è risultato del tutto nuovo rispetto alla relazione dell’anno scorso e proprio nel numero di ottobre 2020 della rivista per accademici è stato pubblicato (e verosimilmente a novembre apparirà nella rivista bimestrale che viene venduta nelle edicole).Questo il testo dell’articolo:

“Mai tredici a tavola”, quante volte in un convivio, anche familiare, noi italiani ci siamo sentiti ripetere questo mantra, che anche nelle tavole più raffinate ci riporta indietro ad un passato di superstizione che facciamo fatica ad espellere dalla nostra coscienza! Una tradizione talmente radicata che la psicanalisi ha dato anche un nome scientifico a questa atavica paura, la triscaidecafobia. 

È  evidente che l’origine di questa superstizione, specie a tavola, deriva direttamente dal racconto evangelico dell’Ultima Cena dove i commensali erano appunto 13, ma per comprendere come questo numero sia in particolar modo temuto in quell’area etnica e linguistica che si rifà alle antiche popolazioni celtiche e scandinave, strettamente imparentate tra loro, occorre sapere che nella mitologia scandinava, i semidei erano in origine 12, tutti benevoli, che avevano portato benefici e progresso agli uomini, fino a quando non è sopravvenuto Loki, il tredicesimo semidio, anche se in realtà viene tratteggiato con le sembianze femminili (non a caso), attaccabrighe, invidioso, dedito solo a far soffrire gli uomini per puro divertimento. Non solo: nel mito nordico di Norse, si narra di un banchetto nel Valhalla al quale parteciparono i 12 semidei benevoli. Loki, la divinità del conflitto e del male, si presentò non invitata al banchetto portando il numero complessivo a 13; seguì uno scontro per espellerla dal convivio nel quale Balder, il favorito degli dei, venne ucciso. Direttamente da questa mitologia, codificata di gran lunga prima dei Vangeli, viene la superstizione secondo cui se si è 13 a tavola, allora uno dei commensali entro l’anno è destinato a morire. C’è qualche sociologo della religione che afferma anche che l’episodio dell’Ultima Cena venga influenzato dal mito nordico del banchetto di Norse, in cui Loki fu sostituito con Giuda e Balder con Cristo. Sta di fatto che la triscaidecafobia è molto radicata nei Paesi anglosassoni, nei quali è tradizione, se si è in 13 attorno ad una tavola, aggiungere un gatto di porcellana per rappresentare il quattordicesimo ospite, al quale si sporziona anche tutto il banchetto, ed allontanare così la maledizione.

Tuttavia, anche l’antichità classica, in cui la religione era per lo più radicata in una serie di superstizioni stratificate nel tempo, conobbe a tavola l’esecrazione per il numero 13. In Grecia, il simposio, che era un vero e proprio rito collettivo dagli importanti risvolti etici, politici, sociali, ma anche sacrali e religiosi, era codificato rigidamente e i suoi commensali dovevano essere generalmente nove, come il numero delle Muse, ma si consentiva la presenza di altre tre persone, corrispondenti al numero delle Grazie. Mai oltre. Un tredicesimo partecipante al simposio era dunque assolutamente vietato, anche perché la tendenza era comunque quella di non allestire i banchetti in sale troppo vaste, che non garantivano l’efficace comunicazione e il sodalizio tra i  partecipanti. Era infatti importante che la voce di ognuno potesse arrivare a tutti e che ciascun convitato fosse ben visibile per gli altri; per questo motivo spesso i klínai, i letti da simposio, che contenevano tre posti per ciascuno, erano disposti  a ferro di cavallo, in maniera tale che le teste di tutti i convitati convergessero verso il centro. Il quarto klíne, quando previsto, chiudeva l’ideale quadrato attorno al cratere, da cui tutti prendevano il vino (in Grecia regolarmente annacquato). Quanto sia importante non consentire la presenza di un tredicesimo commensale lo si capisce leggendo il Simposio, uno dei dialoghi più importanti di Platone, che si svolge per l’appunto durante uno di questi banchetti, con dodici invitati stesi sulle klínai: al termine del fitto dialogo in cui prendono la parola vari personaggi, e per ultimo Socrate, irrompe nella sala Alcibiade, ubriaco, che pretende di prendere la parola e di essere per l’appunto il tredicesimo ospite. Questo è concepibile solo perché Alcibiade è ubriaco, ossia non rispetta l’etichetta essenziale del buon cittadino, che non beve mai vino puro e non perde la sua mente nei fumi dell’alcol: il sacro numero dei partecipanti al banchetto è violato da chi non è nel pieno possesso delle sue facoltà, cosa che Alcibiade non avrebbe mai fatto da sobrio.

Una manciata di decenni più tardi del Simposio platonico, fece molto scalpore la morte di Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, che venne colpito da un fulmine, nel santuario della sua capitale, Pella, dopo aver collocato la sua statua insieme alle 12 degli dei principali dell’Olimpo, rappresentati proprio nel momento del sacro simposio: aveva violato il sacro numero e si era addirittura proclamato il tredicesimo dio!

Le regole del simposio greco vennero riprese in toto dal mondo etrusco (che però consentiva alle donne, se di alto rango, di parteciparvi) e da esso passò a quello romano, che poi si incontrò con la tradizione cristiana. Così, per il numero 13, specie a tavola, non ci furono più speranze.

E di tradizione schiettamente latina – per chiudere con un tocco piccante – è anche l’esecrazione del venerdì (che insieme al 13 rappresenta il massimo della sfortuna per una giornata): molto prima del ricordo del giorno in cui venne crocifisso Gesù, il dies Veneris, insieme a quello del suo divino amante, Marte, erano elencati tra i giorni nefasti, ossia quei giorni in cui non era consentito elevare preghiere agli dei: questo perché il primo era dio della guerra e della discordia e la seconda invece, dea della bellezza, si era accaparrata il temerario giudizio di Paride offrendogli, come sappiamo, Elena, la più bella tra le mortali, a scapito di Era e Minerva, provocando la guerra di Troia. Inoltre, i due dei erano stati protagonisti di un curioso e piccante rendez-vous: Venere, moglie di Vulcano, si innamora di Marte e con lui tradisce il marito nella propria camera nuziale. Il Sole scopre l’adulterio e lo rivela subito a Vulcano. Questi, infuriatosi, si vendica costruendo una rete invisibile, da legare attorno al letto disonorato. Così i due amanti, colti in flagrante durante il loro incontro furtivo, vengono intrappolati nella rete. Vulcano, per dar risalto alla sua vendetta, chiama tutti gli dei a raccolta per essere testimoni del fatto. Libererà poi i due amanti solo grazie all’intercessione di Nettuno.  Insomma, a causa di questi precedenti ben poco divini, i due giorni sono rimasti, nella settimana, segnati per sempre tant’è che la saggezza popolare ha sintetizzato questa situazione con un distico indimenticabile: Né di Marte né di Venere non si sposa, non si parte e non si dà principio ad arte.

Per chi vuole leggere l’articolo direttamente sulla rivista:

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