Il rapporto tra Gabriele d’Annunzio e Miglianico: il mio intervento al “festival dannunziano” iniziato ieri

Ieri sera, nell’ambito della prima giornata del pre-festival dannunziano 2023, ho avuto l’onore di parlare all’apertura dell’evento tenutosi a Miglianico che apriva l’intero programma di celebrazioni, seguite poi dall’inaugurazione della “Passeggiata dannunziana” attorno al colle miglianichese e dal concerto dei Tiromancino in serata.

Questo è stato il mio intervento:

 

Allora le campane finalmente squillarono. Come i bronzi stavano a poca altezza, il fremito cupo del rintocco sfiorò tutte le teste; e una specie di ululato continuo si propagava nell’aria, tra un colpo e l’altro.

«San Pantaleone! San Pantaleone!»

Fu un immenso grido unanime di disperati che chiedevano aiuto. Tutti, in ginocchio, con le mani tese, con la faccia bianca, imploravano.

«San Pantaleone!»

Apparve sulla porta della chiesa, in mezzo al fumo di due turiboli, Don Cònsolo scintillante in una pianeta violetta a ricami d’oro. Egli teneva in alto il sacro braccio d’argento, e scongiurava l’aria gridando le parole latine:

«Ut fidelibus tuis aeris serenitatem concedere digneris. Te rogamus, audi nos».

L’apparizione della reliquia mise un delirio di tenerezza nella moltitudine. Scorrevano lagrime da tutti li occhi; e a traverso il velo lucido delle lagrime li occhi vedevano un miracoloso fulgore celeste emanare dalle tre dita in alto atteggiate a benedire. La figura del braccio pareva ora più grande nell’aria accesa; i raggi crepuscolari suscitavano barbagli variissimi nelle pietre preziose; il balsamo dell’incenso si spargeva rapidamente per le nari devote.

«Te rogamus, audi nos!».

 

Tutti noi miglianichesi, di fronte a questa scena, che si trova nel secondo capitolo della novella “San Pantaleone”, pubblicata per la prima volta da Gabriele d’Annunzio sul “Fanfulla della domenica” il 15 giugno 1884, riconosciamo immediatamente la reliquia d’argento che contiene un frammento del braccio del nostro santo patrono che ogni anno viene portata in processione insieme alla statua di San Pantaleone il 27 luglio. 

 

Ed è proprio quella reliquia, che noi tutti vediamo ogni anno, quella a cui faceva riferimento il poeta che aveva conosciuto Miglianico e San Pantaleone grazie all’amico Francesco Paolo Michetti, che proprio l’anno prima, il 1883, aveva completato il suo primo grande capolavoro che consolidò la sua crescente fama di pittore, Il Voto, che fissava in maniera mirabile il momento di profonda spiritualità, venato però di superstizione e di ferinità quasi animale, che si ripeteva ogni anno durante le feste patronali, quando coloro che avevano fatto un voto al santo martire di Nicomedia, che solo a Miglianico, in tutto l’Abruzzo, viene celebrato come patrono, andavano a scioglierlo, strisciando letteralmente bocconi sul pavimento, allora ancora inesistente, della chiesa – che era ancora la metà di quella attuale – con la lingua che percorreva la nuda terra fino ad arrivare al simulacro di San Pantaleone, posto ai piedi dell’altare, dove oggi ci sono i tre gradini che dividono il presbiterio dalla navata.

 

 

Quel simulacro non era quello attuale, “da processione”, ma il cosiddetto “Sande Pantalunucce”, ossia un grande busto tutto d’argento del santo innestato su una base di legno. Un oggetto di grande devozione ma anche di grande valore, che infatti non passò inosservato ai tedeschi in ritirata durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel castello, poi diroccato dai bombardamenti e ricostruito come dimora storica negli anni Cinquanta, c’era la sede di un comando germanico con annessa armeria, la popolazione venne fatta sfollare e prima della ritirata i tedeschi portarono via tutto ciò che c’era di prezioso, tra cui il busto argenteo di San Pantaleone, lasciando solo la base lignea che è ancora conservata nella nostra chiesa e che venne esposta l’ultima volta nel 2004 durante le prime feste patronali nella chiesa nuova di San Rocco. Detto per inciso, anche il meraviglioso dipinto settecentesco della Madonna delle Piane, custodito nella chiesetta in riva al fiume Foro, venne trafugato in quei giorni e solo dopo la guerra il pittore Rolando da Ponte ne fece una riproduzione che oggi viene portata in processione l’8 settembre.

 

Anche questo busto argenteo ormai perduto è protagonista nella novella di Gabriele d’Annunzio che così inizia il quarto capitolo:

 

«E la falange armata di falci, di ronche, di scuri, di zappe, di schioppi, si riunì su la piazza, dinanzi alla chiesa. E tutti gridavano:

«San Pantaleone!»

Don Cònsolo, atterrito dallo schiamazzo, s’era rifugiato in fondo ad uno stallo, dietro l’altare. Un manipolo di fanatici, condotto da Giacobbe, penetrò nella cappella maggiore, forzò le grate di bronzo, giunse nel sotterraneo, dove il busto del santo si custodiva. Tre lampade, alimentate d’olio d’oliva, ardevano dolcemente nell’aria umida del sacrario; dietro un cristallo, l’idolo cristiano scintillava con la testa bianca in mezzo ad un gran disco solare; e le pareti sparivano sotto la ricchezza dei doni.

Quando l’idolo, portato sulle spalle da quattro ercoli, si mostrò infine tra i pilastri del vestibolo, e s’irraggiò alla luce aurorale, un lungo anelito di passione corse il popolo aspettante, un fremito come d’un vento di gioia volò sopra tutte le fronti. E la colonna si mosse; e la testa enorme del santo oscillava in alto, guardando innanzi a sé dalle due orbite vuote».

 

Oggi nessuno di noi, se non qualche robusto ottuagenario o nonagenario, può ricordarsi di quella statua e dirci se l’impressione che faceva questa grande testa argentea, così scintillante da sembrare bianca, e con le orbite degli occhi cave, incorniciato da una grossa aureola, anch’essa d’argento, come si vede nel dipinto di Michetti, fosse così terribile come descritto da Gabriele d’Annunzio nella novella “San Pantaleone”.

 

Sappiamo però che il futuro Vate utilizzò la nostra devozione popolare, spontanea, sanguigna, anche un po’ superstiziosa – e ne aveva fatto le spese proprio Francesco Paolo Michetti durante i lavori preparatori de Il Voto, come racconta lui stesso in un’intervista al Corriere della Sera del 1910, quando si era trovato un’orda di miglianichesi infuriati per una presunta profanazione del santo, dopo una fotografia scattata alla processione da parte del pittore a cui era seguita una violenta grandinata nel bel mezzo dell’afoso luglio – per calcare la mano sulle caratteristiche ingenue e violente della campagna abruzzese di fine Ottocento. Non credo io sia lontano dalla realtà se affermo che fu proprio il racconto di Michetti sulla sua disavventura miglianichese, così densa di elementi di irrazionale violenza, accese in d’Annunzio la sua proverbiale capacità di descrizione dell’animo umano che rese il verismo abruzzese, di cui il poeta pescarese fu il più grande esponente, molto più vicino al naturalismo francese di Emile Zola che alla descrizione delle misere genti siciliane di Giovanni Verga e Federico De Roberto. 

 

Anche se le prime novelle dannunziane, quelle pubblicate nelle raccolte Terra vergine e Il libro delle vergini, sono di un paio d’anni precedenti alla racconta San Pantaleone, è solo in quest’ultima che si affina il Verismo di Gabriele d’Annunzio, quel suo trasformare le masse contadine e i pescatori del suo circondario (ricordiamoci che nel 1884 Pescara era un paese di circa 10 mila abitanti in provincia di Chieti) come simbolo in un «Abruzzo verdeggiante come una terra esotica, di erotismo e di ferinità di uomini non imbastarditi dalla civiltà», come scrisse il critico letterario Pietro Gibellini. Non c’è più quella sensibilità, quella vicinanza quasi sentimentale di Verga alle masse disagiate della Sicilia, ma i contadini e i pescatori abruzzesi sono simboli di una umanità lontana dalla città e dalle raffinatezze che lo stesso d’Annunzio stava provando a Firenze e Roma in quegli stessi anni. Una umanità che però appare incivile, bestiale, irrazionale. E i contadini di Miglianico, fanatici di San Pantaleone, ne sono l’emblema, tant’è che quando nel 1902 Gabriele d’Annunzio raccoglie le sue novelle veriste in un solo volume, riadattandole, le famose Novelle della Pescara, “San Pantaleone” prende l’inquietante titolo di “Gli idolatri” e viene fornito anche un sequel alla storia, ancora più macabro, intitolato “L’eroe”.

 

Non ci stupiamo dunque se il rapporto tra Miglianico e Gabriele d’Annunzio non sia stato il migliore in assoluto.

 

Del resto, il poeta, abbandonando presto le tensioni veriste e il suo Abruzzo natale, dove venne solo per essere eletto come deputato, si diede ad altro tipo di poesia e ad altri tipi di imprese, divenendo il Vate d’Italia.

 

Rimane però straordinario il reportage che lui stesso, il 14 gennaio 1883, quindi poco prima del completamento della tela Il Voto dell’amico Michetti, pubblicò sul “Fanfulla della domenica” sulla processione che il pittore avrebbe eternato nel suo quadro. Una descrizione vivida, piena, che può essere stata fatta solo da chi ha vissuto con i propri occhi quella esperienza. Merita una lettura quasi integrale, con la quale chiudo questo mio intervento, ringraziandovi di cuore per l’attenzione:

 

«(…) L’impressione fu a Miglianico, alla festa di San Pantaleone, nella calura soffocante dell’estate, dentro la chiesa, tra il lezzo bestiale che esalava da quei mucchi di corpi umani accalcati nella mezza ombra. Era una greggia, una mandra enorme d’uomini, di femmine, di fanciulli, entrata a forza, per vedere il santo, per pregare il gran santo d’argento, per assistere al martirio dei devoti.

La mandra nell’afa sudava e ansava come un solo gigantesco animale sdraiato sul pavimento a soffrire: un mugolìo si propagava sotto la navata, tra il fumo dell’incenso saliente a disperdersi. Onde d’incenso passavano su quelle mille teste inchinate al suolo, onde aspre di suono fremevano riempiendo la sonorità vuota: le fiammelle giallognole nella mezza ombra tremavano e morivano.

 

E là, in mezzo ad un solco umano, fra pareti umane, tre quattro cinque forsennati s’avanzavano strisciando, con il ventre per terra, con la lingua su la polvere dei mattoni, con le punte dei piedi rigide a sostenere il corpo. Rettili. I muscoli delle gambe ignude si tendevano in rilievo sotto la pelle pelosa, sotto il sudiciume della pelle nerastra; le vene delle braccia si gonfiavano in un lividore verdognolo, come piene di un umore velenoso, quasi per scoppiare; e nello spasimo dello sforzo pareva che le reni si spezzassero. Tra le dita delle mani, tra le unghie dei piedi le chiazze del sangue apparivano già; e la bocca sanguinava nello strofinìo feroce su i mattoni, e su le macchie rosse che un fanatico aveva lasciate strisciava la lingua arida di un altro fanatico.

 

Si avanzavano così, come rettili. Una superstizione cupa li acciecava; tutta quell’afa, tutto quel lezzo, tutto quel suono, e l’odore dell’incenso, e il tremolio delle fiammelle, e l’alito ardente che le pareti umane ventavano, tutto il abbatteva in uno stupidimento sacro, li abbarbagliava in un’allucinazione di fede, li esaltava nel dolore. E giungevano al santo, e gli si abbrancavano al collo in un supremo impeto che pareva d’odio, e cercavano con la bocca dolorosa quella fredda bocca d’argento, e gl’insaguinavano nel bacio la faccia, e prolungavano il bacio con una specie di godimento convulso, come per sentire il refrigerio del metallo su i laceramenti della lingua, come per sentire almeno rispondere a quel bacio.

 

Restavano lì, abbrancati, sotto lo spruzzo dell’acqua santa, al mormorìo del prete benedicente, fin che il cranio del compagno sopraggiunto non li urtava alla calcagna. Poi si staccavano, provando più acute le fitte; con la testa penzolante dal collo, si trascinavano via, stramazzavano per li scalini, si abbattevano su la pietra come in un tramortimento. Parevano bestie colpite in fronte: le carni ignude della schiena, delle gambe, delle braccia prendevano come una lividura di cancrena. Il santo era lì, muto, con i due terribili buchi neri sotto la sporgenza del cranio, con la impronta sanguigna del bacio sul viso, nella immobilità, nella luce crudele. (…)».

 

Questa era la Miglianico del 1883, descritta da Gabriele d’Annunzio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *