La letteratura di fronte alle “quattro notti” del Targum: i miei interventi a Santo Spirito il 2 agosto scorso
Nella notte del 2 agosto scorso sono stato protagonista, assieme a don Gilberto Ruzzi e a Toni e Marta Mattioli dell’evento “Il poema delle Quattro Notti”, organizzato dall’Ufficio Catechistico diocesano insieme alla cooperativa “Ripa Rossa” che gestisce lo splendido eremo di Santo Spirito a Roccamorice: una serata di letteratura, arte, musica per riecheggiare il poema del targum citato nel titolo dell’evento stesso, che narrava delle quattro “notti” dell’umanità, quella della creazione, quella del sacrificio di Isacco, quella della liberazione degli Ebrei dall’Egitto, quella del giudizio universale.
Sono stato chiamato a “commentare” con brani letterari queste quattro notti e per ognuna di esse ho scelto alcuni riferimenti che potessero illuminare l’idea che da sempre esse hanno suscitato negli uomini.
Come sempre, ricostruisco a posteriori, senza nessuna pretesa di precisione letterale il mio intervento del 2 agosto, dividendola per i quattro momenti, in cui ci siamo alternati tra spiegazioni artistiche, letture di brani, ascolto di musica, meditazione della Parola di Dio.
Prima notte.
La radice indoeuropea di “notte”
Per comprendere la radice della parola “notte”, che è una di quelle parole “basiche” che sono comuni a tutte le lingue che si riconoscono nell’indoeuropeo, occorre rifarsi alla concezione cosmogonica dei nostri antichi progenitori per cui le acque cosmiche, all’origine del tutto (“lo Spirito di Dio si librava sulle acque”, anche in Genesi), si divisero formando due oceani, uno luminoso attorno al sole, l’altro oscuro attorno alla luna. L’acqua era detta *n(a) e siccome quando il sole tramontava credevano che il moto curvilineo delle acque dell’oceano oscuro si avvicendasse sulla volta celeste, ecco che il movimento curvo *k si unisce alla radice dell’acqua a formare *nak, cioè la notte che non è altro che il movimento dell’acqua dell’oceano oscuro. Per capire quanto siano strette le parentele, basti pensare che muoversi nell’acqua era ugualmente detto *nak, da cui l’italiano “nuotare”.
*nak precisamente era il tramonto, ossia il momento in cui le acque oscure dell’oceano si riversavano nel cielo. Da questa parola nascono tutte le parole che nelle lingue antiche e moderne indicano la notte:
*nokʷt- (nominativo *nokʷt-s, genitivo *nekʷt-s) notte, tramonto = nakt in sanscrito, nuc-s / nuk-tos, in greco; noc-s / noc-tis in latino, notte in italiano, nuit in francese, Nacht in tedesco, night in inglese, natë in albanese, noč in russo, naktis in lituano
Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (vv. 1-8, 61-98)
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli? (…)
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir della terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. (…)
Il senso della notte porta l’essere umano ad interrogarsi su di sé, sulla sua realtà, sul perché è in terra, su cosa lo attende: è alzando gli occhi al cielo di notte, quella notte da cui tutto ebbe origine, che l’uomo scopre sé stesso.
Seconda notte.
Siamo soliti leggere ed interrogarci sullo stato d’animo di Abramo a cui Dio chiede di sacrificare il suo unico figlio, ma mai abbiamo pensato ai pensieri di Isacco che si sente preso, legato sull’altare, pronto per essere immolato, incredulo, inconsapevole, soprattutto inerme, che sente su di sé il coltello di chi lo ha generato e gli ha promesso protezione e sicurezza.
Per questo, i testi che ho scelto echeggiano questo conflitto irrisolto, inespresso, a cui spesso non si dà voce.
Franz Kafka, Lettera al padre, passim
Carissimo padre,
di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente. (…) Sarei stato felice di averti come amico, come principale, come zio, come nonno e persino (pur con qualche titubanza) come suocero. Solo come padre eri troppo forte per me, soprattutto in considerazione del fatto che i miei fratelli sono morti in tenera età e le sorelle sono giunte solo molto tempo dopo, e quindi io ho dovuto parare il primo colpo tutto da solo, ed ero davvero troppo debole per farlo. (…) Tu hai agito verso di me come dovevi agire, solo che devi smettere di credere che il mio soccombere a questo tuo agire sia dovuto a una particolare cattiveria da parte mia.
Ero un bimbo pauroso, ma ero anche testardo, come lo sono i bimbi; sicuramente la mamma mi ha anche un po’ viziato, ma non posso credere che fosse così difficile indirizzarmi, non posso credere che una parola gentile, un tacito prendermi per mano, uno sguardo buono non avrebbero potuto ottenere da me tutto quel che si voleva. Ora anche tu in fondo sei un uomo tenero e bonario (quel che segue non è una contraddizione, perché io parlo soltanto dell’aspetto che ebbe a influenzare il bambino), ma non tutti i bimbi hanno la resistenza e l’intrepidezza necessarie per continuare a cercare finché non giungono alla bontà.
Tu sai trattare un bambino solo come tu stesso sei fatto, con forza, strepito e iracondia; e nel caso specifico la cosa ti sembrava inoltre ancora più adatta, perché volevi fare di me un ragazzo forte e coraggioso. (…)
Questo fu soltanto un piccolo inizio, ma questa sensazione di nullità che spesso mi domina (sensazione da altri punti di vista anche nobile e feconda) deriva abbondantemente dalla tua influenza. Io avrei avuto bisogno di un po’ d’incoraggiamento, un po’ di gentilezza, di qualcuno che mi lasciasse un po’ aperta la mia strada: invece me la sbarrasti, sicuramente con le migliori intenzioni, quelle di farmene imboccare un’altra. Ma io non ne ero capace. Mi incoraggiavi, ad esempio, quando ero bravo a fare il saluto militare e a marciare, ma io non ero un futuro soldato; oppure mi incoraggiavi quando mangiavo d’appetito o addirittura ci bevevo su anche una birra, quando ripetevo canti dal significato a me oscuro o scimmiottavo i tuoi modi di dire preferiti, ma niente di tutto ciò rientrava nel mio futuro. Ed è significativo che ancor oggi tu mi incoraggi davvero solo quando tu stesso sei mosso a compassione, quando si tratta del tuo orgoglio, che ho ferito (ad esempio con le mie intenzioni matrimoniali) o che viene ferito in me (quando ad esempio Pepa mi insulta). Allora mi si incoraggia, mi si rammenta il mio valore, si accenna ai buoni partiti che potrei trovare, e Pepa riceve una condanna senza appello. Ma a prescindere dal fatto che alla mia età sono ormai quasi completamente insensibile agli incoraggiamenti, a che cosa dovrebbero mai servirmi, visto che sopraggiungono soltanto quando in prima istanza non si tratta di me. (…) Ma per me bambino tutto quel che mi gridavi era un ordine del cielo, non lo dimenticavo mai, rimaneva per me lo strumento più importante per giudicare il mondo e, soprattutto, per giudicare te stesso (…).
Pablo Neruda, Il padre
Terra dalla superficie incolta e arida
terra senza corsi d’acqua né strade
la mia vita sotto il sole trema e si allunga.
Padre, i tuoi dolci occhi non possono nulla
come nulla poterono le stelle
che mi bruciano gli occhi e le tempie.
Il mal d’amore mi tolse la vista
e nella fonte dolce del mio sogno
una fonte tremante si rifletté.
Poi… chiedi a Dio perché mi dettero
ciò che mi dettero e perché poi
incontrai una solitudine di terra e di cielo.
Guarda, la mia giovinezza fu un candido germoglio
che non si aprì e perde
la sua dolcezza di sangue e vitalità.
Il sole che tramonta e tramonta in eterno
si stancò di baciarla… È l’autunno.
Padre, i tuoi dolci occhi non possono nulla.
Ascolterò nella notte le tue parole:
…figlio, figlio mio …
E nella notte immensa
resterò con le mie e con le tue piaghe.
Terza notte.
Per la terza notte ho avuto come idea centrale quella del mare, quel mare che per gli Ebrei è stata la notte della libertà, passando nell’oscurità tra due muraglie di acqua, la stessa che invece travolge gli Egiziani e li fa passare alla notte eterna. Il mare è elemento centrale per noi che vi viviamo vicino, ma anche esperienza di tutti gli uomini, simbolo di libertà, elemento insieme desiderato e pieno di timore.
Charles Baudelaire, L’uomo e il mare
Uomo libero, sempre amerai il mare!
È il tuo specchio il mare: ti contempli l’anima
nell’ infinito muoversi della sua lama.
E il tuo spirito non è abisso meno amaro.
Divertito ti tuffi in seno alla tua immagine,
l’abbracci con lo sguardo, con le braccia e il cuore
a volte si distrae dal proprio palpitare
al bombo di quel pianto indomabile e selvaggio.
Siete discreti entrambi, entrambi tenebrosi:
inesplorato, uomo, il fondo dei tuoi abissi,
sconosciute, mare, le tue ricchezze intime,
tanto gelosamente custodite i segreti!
Eppure ecco che vi combattete
da infiniti secoli senza pietà né rimorso,
a tal punto amate le stragi e la morte,
o lottatori eterni, o fratelli implacabili!
Salvatore Quasimodo, S’ode ancora il mare
Già da più notti s’ode ancora il mare,
lieve, su e giù, lungo le sabbie lisce.
Eco d’una voce chiusa nella mente
che risale dal tempo; ed anche questo
lamento assiduo di gabbiani: forse
d’uccelli delle torri, che l’aprile
sospinge verso la pianura. Già
m’eri vicina tu con quella voce;
ed io vorrei che pure a te venisse,
ora, di me un’eco di memoria,
come quel buio murmure di mare.
Quarta notte.
Una scelta particolare per aprire il momento del giudizio universale, che dà voce al popolo, alle rappresentazioni più vicine al sentire comune di questa notte che sarà l’ultima del genere umano, l’ultima dell’universo come lo conosciamo noi. Una rappresentazione che viene influenzata dalle centinaia di affreschi e di dipinti nelle chiese di Roma su questo tema, non ultima la Cappella Sistina.
Giuseppe Gioacchino Belli, Er giorno der giudizzio
Quattro angioloni co le tromme in bocca
Se metteranno uno pe cantone
A ssonà: poi co ttanto de vocione
Cominceranno a dì: “Fora a chi ttocca”
Allora vierà su una filastrocca
De schertri da la terra a ppecorone,
Pe ripijà ffigura de perzone
Come purcini attorno de la biocca.
E sta biocca sarà Dio benedetto,
Che ne farà du’ parte, bianca, e nera:
Una pe annà in cantina, una sur tetto.
All’urtimo uscirà ‘na sonajera
D’angioli, e, come si ss’annassi a letto,
Smorzeranno li lumi, e bona sera.»
Infine, non poteva essere diversamente, chiudo con “padre Dante”, che nel VI canto dell’Inferno ci ha lasciato la dottrina più sicura e precisa su come sarà il Giudizio Universale e quali saranno le conseguenze di esso sulle anime, nel momento in cui non esisterà più il tempo di espiare, il purgatorio, ma solo il tempo di contemplare o di penare.
Dante Alighieri, Inferno VI, 94-111
E ’l duca disse a me: «Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:
ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch’in etterno rimbomba».
Sì trapassammo per sozza mistura
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;
per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti
crescerann’ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?».
Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.
Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta».