Le due lapidi nella casa parrocchiale ed un possibile terremoto?

Grazie alla sollecitazione del concittadino ed amico Giuseppe D’Aversa, che mi chiedeva la traduzione, invero poco agevole a chi non abbia dimestichezza con le abbreviazioni paleografiche, delle iscrizioni contenute nelle due lapidi, una di pietra, l’altra di legno, presenti all’interno del cortiletto della casa canonica di San Michele Arcangelo, ad uso per ora dell’Accademia Musicale, ho potuto riprendere in mano alcune riflessioni fatte più di una decina di anni fa quando iniziai ad occuparmi di queste due testimonianze che rivelano il nome di due parroci di Miglianico e ci danno idea dell’importanza della nostra cittadina già nel XVII secolo.

Andiamo con ordine.

La prima lapide è quella in pietra, datata 1618:

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Il testo presenta numerose abbreviazioni paleografiche e non è di agevole interpretazione nei suoi particolari. La traduzione dovrebbe essere questa:

Francesco Ursactes, titolare di questa sede e parroco di questa cittadina si preoccupò di erigere dalle fondamenta e rivestire di pietra questa dimora con il proprio denaro nell’anno del Signore 1618, secondo anno del suo mandato di arciprete.

Considerando: l’elisione della nasale N segnalata con l’archetto sulla A di FRAC., ossia le prime quattro lettere corrispondenti all’abbreviazione di un nome comune come Francesco (Franciscus); la difficile abbreviazione THS che dovrebbe corrispondere a titularis huius sedi (titolare di questa sede, ossia il titolo di arciprete parroco), visto che subito dopo compare la specificazione HUIUS CASTRI PAROCHUS; l’abbreviazione PP con la barra orizzontale sui segni verticali delle lettere che indica l’aggettivo proprius; A.D. che è un’abbreviazione molto popolare, Anno Domini (anno del Signore); il termine tecnico abbreviato ARCHIP con la S piccola sovrascritta che si scioglie in archipresibiteratus, ossia l’ufficio di arciprete, che era il titolo (ecco che si rimanda a quel THS precedente) del sacerdote che reggeva la chiesa più importante di un medesimo territorio.

Insomma, la casa canonica fu costruita nel XVII secolo per permettere al titolare della parrocchia di risiedere stabilmente a Miglianico, tra l’altro accanto alla chiesa parrocchiale. La lapide ci informa indirettamente del fatto che in paese ci fossero più sacerdoti, dei quali uno assumeva il titolo di arciprete, e quindi più chiese.

A poco più di un secolo dopo risale la seconda lapide, in legno, molti più curata esteticamente, molto più chiara nei contenuti senza alcuna abbreviazione. La datazione è 1729:

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Il testo è di semplice interpretazione:

Saverio Persico da Caramanico, parroco di questa cittadina, riparò con il proprio denaro, ampliò e ristrutturò questa abitazione già da lungo tempo diroccata dalle fondamenta nell’anno del Signore 1729, settimo anno del suo mandato di arciprete.

Al di là della generosità dei singoli parroci (e noi ne abbiamo un esempio fulgidissimo e recente come quello di don Vincenzo Pizzica), che mettono a disposizione il proprio denaro per le costruzioni ad uso parrocchiale, balza agli occhi un particolare non insignificante: nel 1729, cioè appena 111 anni dopo la sua costruzione, attestata dalla prima lapide, la casa canonica era già “diroccata dalle fondamenta”. Possibile? Cosa mai è potuto succedere per far diroccare una casa costruita in pietra ad inizio del Seicento? La lapide lignea è chiara: IAMPRIDEM COLLAPSAS A FUNDAMENTIS. Il verbo collabor (di cui collapsus è il participio passato) è uno di quei termini specialistici che non danno adito a fraintendimenti: il suo significato letterale è sconquassarsi, essere rovesciato. Ugualmente iampridem è un avverbio di tempo composto che ha un solo significato, già da molto tempo, che possiamo ipotizzare sia collegato almeno ad un passaggio generazionale (all’incirca una ventina di anni per come scorrevano le generazioni allora).

L’attualità di questi giorni, con il terremoto nel Centro Italia, mi ha fatto tornare alla memoria non solo il terremoto aquilano del 2009, che tutti abbiamo vissuto, ma anche e soprattutto quel grandissimo terremoto, molto più forte di quello di sette anni fa, che nel 1703, il 14 gennaio e poi il 2 febbraio, scosse L’Aquila e tutto il Centro Italia, con danni che arrivarono, attestati, fino a Roma (ne parla il cronista tedesco Ludwig Frehierr von Pastor, che addirittura cita il fatto che il campanello della camera privata di papa Clemente XI si mise a suonare nella notte, scosso dal sisma). I due terremoti del 1703, di magnitudo 6,7 ma di intensità cinque volte superiore a quello dell’Aquila (tanto che sulla scala Mercalli, che calcola i danni sul terreno, sono classificati all’XI, quello di gennaio, e X grado, quello di febbraio), fecero danni gravissimi a centinaia di chilometri di distanza, quindi si può ragionevolmente ipotizzare che anche Miglianico ne soffrì. Del resto il verbo scelto nella seconda iscrizione nella casa canonica (collapsas, ossia “sconquassate”) ben si adatta alle conseguenze di un sisma violento. Se nel 1703 la casa canonica fu colpita e divenne inagibile (cosa possibile, visto che era stata costruita e rivestita, come afferma la prima iscrizione, in pietra), è ovvio che ben 26 anni dopo (lungo tempo, per l’appunto) fu riparata, ampliata e ristrutturata, come attesta la seconda iscrizione. Una ristrutturazione particolarmente complessa che dovette impegnare risorse ed uomini e che sarebbe dovuta rimanere nella memoria di tutti come monito ad un migliore metodo di costruzione (non a caso il terremoto del 2009 non ha lesionato la casa canonica): ecco il motivo di questa seconda iscrizione. Anticamente, non si inaugurava per necessità politica né si mettevano “targhe commemorative” tanto per fare show. Se la storia è maestra di vita, allora anche queste due iscrizioni ci vogliono ricordare la necessità di non dimenticare che siamo in una zona sismica e le costruzioni vanno realizzate a regola d’arte.

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