Fine d’anno amara per precari e collaboratori: equo compenso ancora al palo e co.co.co. trasformati in partite IVA

Si pensava di brindare anche alla fine dell’anno che abbiamo aperto con l’entrata in vigore della Carta di Firenze: l’approvazione della legge dell’equo compenso avrebbe dovuto chiudere un 2012 perfetto (almeno “sulla carta”) per precari, freelance, collaboratori che hanno ottenuto due strumenti, uno deontologico e l’altro legislativo, per far fronte ad una situazione che era diventata insostenibile dal punto di vista retributivo.

Purtroppo il brindisi non ci potrà essere (almeno finora).

Nonostante le maglie stringenti della Costituzione, che fissa tempi precisi, la legge sull’equo compenso, approvata il 4 dicembre, non è ancora stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale e nemmeno la “rassicurazione” di Mario Monti al presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino, il 23 dicembre scorso, durante la conferenza stampa di fine anno del Presidente del Consiglio dimissionario (“è in via di pubblicazione”), è servita a smuovere la situazione.

In considerazione del fatto che devono trascorrere 15 giorni dalla pubblicazione per l’entrata in vigore della legge e visto che lo stesso dettato legislativo prevede 30 giorni di tempo per la successiva composizione della commissione (e non è detto che tutti gli organismi che dovranno esprimere un membro in essa siano puntuali nelle designazioni) e poi 60 giorni per l’individuazione della “quantità” dell’equo compenso, ammesso che entro la fine dell’anno avvenga la pubblicazione della legge, solo dopo Pasqua (che nel 2013 cadrà il 31 marzo) lo strumento legislativo sarà pienamente in vigore.

Gli editori non se ne sono stati con le mani in mano nel frattempo: da diversi giorni mi arrivano telefonate di molti colleghi che, con il contratto annuale da co.co.co. in scadenza in varie testate, mi segnalano che hanno chiesto loro di aprire la partita IVA per cambiare la natura del loro rapporto (ma non la sostanza della loro collaborazione, parasubordinata, che parafrasando una celebre battuta di Ezio Greggio nell’antico Drive In degli anni Ottanta si può dire che “para…subordinata, ma bada ben bada ben bada ben è subordinata”). L’allarme era stato già lanciato dalla Fnsi il 14 dicembre scorso con una nota molto critica, confermata puntualmente dai fatti.

Oltre alla cautela di evitare qualsivoglia rivendicazione in sede giudiziaria, il contratto a partita IVA contiene un sostanziale risparmio per l’editore ed un grave danno per il collaboratore: nel primo caso i versamenti contributivi all’INPGI assommano al 10%, il 2% a carico dell’editore e l’8% a carico del giornalista, mentre nel secondo caso i contributi sono molto più elevati, il 26% in tutto, di cui due terzi (il 17,82%) a carico dell’editore e il restante terzo (l’8,18%) del giornalista. Senza contare il carico di tasse sulle partite IVA. Insomma, una vera e propria “Caporetto” per il collaboratore che già si ritrova un compenso mensile assolutamente inadeguato e che dall’1 gennaio potrebbe essere costretto a pagare più tasse e ad avere un accantonamento previdenziale immensamente più basso.

Ecco i motivi per i quali ci è difficile brindare all’anno nuovo. Il 2013 potrebbe essere peggio dell’anno bisesto che ci stiamo lasciando alle spalle che, comunque, ci ha “regalato” l’equo compenso. Conquistato con una lotta serrata e senza mai mollare. Ora lo stesso va fatto nei confronti di chi tenta di annullarne gli effetti, solo che sarà una lotta “personale”: sarà ugualmente efficace?

Un commento

  • Francesco Blasi

    Direi che la contromossa per annullare gli effetti dell’equo compenso è stata molto rapida; un’azione di commando.
    Lo dico in quanto ho molti dubbi che l’equo compenso si possa applicare alle partite Iva. Detenere una partita Iva significa aver fatto una scelta da imprenditore piuttosto che da lavoratore subordinato o para tale.
    Certo, tutti sanno che così non è nella maggior parte dei casi; ma provate a dimostrarlo in tribunale. Giacché in circostanze come questa e in molte altre (vedi la c.d. “certificazione” del lavoro subordinato nel nostro settore) far valere la legge significa de facto troncare il rapporto di lavoro e rinunciare magari all’unica fonte di reddito.
    E qui ripeto, come già fatto anche di recente, che a un sindacato che “segnala” e denuncia” deve subentrare un sindacato in grado di farsi valere in sede legislativa -ciò che non è nemmeno avvenuto in sede di equo compenso.
    Il principio sarebbe chiaro: poiché tutto o almeno il 99% del lavoro giornalistico avviene in regime di subordinazione, dovrebbe essere vietata ogni forma diversa da quelle contemplate nello schema portante del Contratto collettivo nazionale dei giornalisti.
    Altrimenti ci prendiamo in giro e vaghiamo smarriti attorno a tecnicismi che pochi sono in grado di seguire. Prego anche te, Antonello, di assumere questa posizione, se non altro per amore di verità e per la consapevolezza (che, sono certo, c’è) di un momento quanto mai difficile per tutti noi.

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