“La fabbrica dei giornalisti”: presentato il rapporto Lsdi 2012

Approfittando di un viaggio in autobus verso Roma, da dove sto scrivendo adesso, ho potuto leggere con tutta calma il “Rapporto sulla professione giornalistica in Italia” di “Libertà di Stampa e Diritto di Informazione” (Lsdi), curato da Pino Rea, che proprio questa mattina è stato presentato nella sede della Fnsi: avevo già letto di sfuggita le anticipazioni e i commenti di alcuni colleghi (sopra tutti, come sempre, l’illuminata lettura di Stefano Tesi sul suo blog), ma riuscire a riflettere sui dati che emergono nella loro interezza è tutta un’altra cosa.

In primo luogo, la prima riflessione è sul titolo: molto opportunamente il rapporto va sotto il nome di “La fabbrica dei giornalisti”. Non si poteva trovare intestazione migliore, per una situazione che in Italia vede la presenza di un “esercito” di oltre 103 mila giornalisti, in continuo aumento, mentre la Francia ne conta 37 mila, gli Stati Uniti 60 mila e la Gran Bretagna 50 mila (e in continua diminuzione): possibile che ci sia una continua ascesa delle iscrizioni, in un contesto lavorativo dove gli spazi si vanno riducendo sempre di più?

Com’è possibile dunque? Non è che, come detto più volte nei mesi scorsi, ormai l’accesso alla professione, in particolare nell’elenco pubblicisti (che è quello che esponenzialmente cresce di più e con i ritmi più rapidi), è ormai troppo agevole a causa di una legge ormai vetusta, che non si è voluto (forse scientemente) riformare? E leggendo i dati incrociati con le posizioni Inpgi aperte e con i dati di reddito non è un pensiero del tutto peregrino.

Mi desta non pochi sospetti il fatto che il 46,8% dei giornalisti iscritti all’Ordine non siano presenti negli elenchi Inpgi, l’iscrizione alla quale è obbligatoria per legge: cosa fanno questi 48.206 giornalisti? Lavorano in nero? Una parte forse sì. Oppure non lavorano affatto e allora perché continuano ad essere negli elenchi? D’accordo, dopo 15 anni di iscrizione nessuno può più essere cancellato (salvo che per morosità, così almeno in Abruzzo depuriamo un po’ di iscrizioni infruttuose) per legge, ma tutti quelli che hanno meno di 15 anni di iscrizione non sono soggetti, sempre per legge, alla verifica almeno triennale dell’attività? Se non hanno scritto più nulla e/o non hanno percepito compensi, li si cancelli! Si abbia il coraggio di farlo!

Sono d’accordo su tutta la linea sulle conclusioni, in merito a questo punto, del rapporto Lsdi:

 

Preferiamo augurarci che la necessità di questa analisi venga spazzata via da una riforma radicale della legge sull’Ordine. Una riforma che (naturalmente dopo un periodo di transizione consistente e il più possibile indolore) porti fra i professionali quell’ampia fascia di pubblicisti che vivono di giornalismo e cancelli la distinzione professionisti/pubblicisti, prevedendo che è giornalista chi fa prevalentemente il giornalista e versa i contributi all’Inpgi.

 

È la mia tesi, quella che porto avanti da un anno circa, da quando cioè si sono affacciate le ipotesi di riforma dell’Ordine, poi miseramente naufragate in un testo che appare una controriforma bella e buona.

Vogliamo parlare di retribuzioni?

Chi ha un regolare contratto Fnsi in media si è visto aumentato il reddito. Giustissimo, ci mancherebbe altro! Solo che fa specie pensare che il reddito medio dei giornalisti dipendenti è maggiore di cinque volte rispetto a quello degli autonomi (i freelance) e di 6,4 volte rispetto a quello dei parasubordinati (co.co.co.). Non mi metto nella schiera dei facili populisti, secondo cui il problema si risolverebbe diminuendo gli stipendi ai contrattualizzati: una mossa che non si tradurrebbe automaticamente in maggiori emolumenti per gli autonomi e i parasubordinati.

Un dato positivo (se proprio vogliamo trovarne uno) è che la retribuzione media dei non contrattualizzati mediamente sale. Di poco, ma sale. Mi piace pensare che questo sia il frutto di una maggiore consapevolezza, da Firenze in poi, della dignità personale e lavorativa, che si deve tradurre in dignità salariale. Ma sarà proprio così?

Sta di fatto che 14.800 colleghi dichiarano redditi da lavoro giornalistico minori di 5.000 euro annui: ora, ammettendo che una buona metà fa anche altri lavori, come è possibile vivere con quella somma irrisoria? A questo punto, come dice sempre il buon Stefano Tesi, non sarebbe meglio che pensassero a cambiare lavoro?

Ci sarebbero tanti altri dati da commentare ma mi limito a due che mi hanno suscitato particolare riflessione.

Il primo è quello relativo ai rapporti di lavoro come ufficio stampa negli enti pubblici e nella pubblica amministrazione in genere: a dodici anni dalle legge 150, testo del tutto inefficace perché privo di sanzioni, ma che ha posto alcuni principi importanti (come quello che l’addetto stampa di un ente deve essere solo un iscritto all’Ordine), diminuiscono i colleghi impiegati in questo tipo di lavoro. Effetto della crisi economica?

Il secondo dato è il tasso di iscrizione al sindacato unico dei giornalisti: è costantemente in discesa, con una picchiata tra i “collaboratori” (per lo più autonomi, parasubordinati, precari), scesi in 13 anni da poco più di 9000 a circa 6600. Un segno evidente di come il sindacato non abbia saputo rappresentare le loro istanze, rimanendo per lo più (salvo lodevoli eccezioni) baluardo dei già garantiti, quelli con un contratto in tasca.

Per chi vuole leggersi tutto il rapporto e magari commentarlo su questa pagina, può scaricarlo cliccando qui.

10 commenti

  • Ho paura che oggi la questione di fondo sia la seguente: pubblicista o professionista, oggi di questo lavoro, da autonomo, non campi. Quindi la riforma e il passaggio ai professionisti dei “professionali” avrebbe un effetto, ahinoi, solo formale e non rispecchierebbe la professionalità reale che, non dimentichiamolo, ha la redditività tra i suoi elementi costitutivi.

  • PS: grazie per l'”illuminato”…ma forse esageri! o volevi dire “abbagliato”? La differenza è sottile…

  • GiusyB

    Credo che la reddititività non possa e non debba più essere considerato un requisito qualificante per la professione. A dirlo non sono io ma i fatti: i giornalisti professionali sono sottopagati. I contrattualizzati sono soltanto il 19% di quelli attivi.
    Il turn over è bloccato e i praticanti che diventano giornalisti per “diritto di reddito” (in quanto accedono all’esame soltanto dopo aver svolto un praticantato retribuito o dopo aver sborsato le cifre necessarie per pagare scuole e master), dopo l’abilitazione, riescono ad impiegarsi con sempre maggiore difficoltà.
    Credo dunque che per fermare la “fabbrica dei giornalisti” occorra procedere in più direzioni:
    1)Riqualificando la categoria ponendo nuove regole d’accesso che si basino sulla competenza reale e non sul reddito (anche per evitare che “ricchi e incompetenti” possano qualificarsi e svolgere il lavoro a discapito di tutti gli altri, giornalisti, competenti e sotto-occupati).
    2)Distinguendo i professionali dagli inattivi e dai blogger: a)creando un elenco per i citizen journalist che, con la loro importantissima funzione sociale di promozione del dibattito pubblico, vanno riconosciuti, tutelati e “formati” affinché rispettino regole deontologiche e civili. Il giornalismo cittadino o amatoriale è quello basato su di un’etica profonda, ha una “funzione di servizio” non trascurabile, ormai, ed è svolto in maniera gratuita e volontaria. b)riconoscendo lo status di pubblicista esclusivamente a chi abbia tutte le carte in regola per potersi definire un esperto in una particolare materia, abbastanza da essere legittimato a fare informazione e opinione; c)operando uno screening dei pubblicisti (ma anche dei professionisti, e dopo ne spiegherò la ragione), affinché il criterio dell’ ESCLUSIVITA’ della professionale sia realmente applicato nella distinzione tra gli iscritti all’uno o all’altro elenco, in quanto – non dimentichiamolo – molti pubblicisti non guadagnano abbastanza per riuscire a passare nella strettoia del praticantato (premessa tanto necessaria quanto iniqua per accedere all’esame d’abilitazione) e molti professionisti guadagnano perfino troppo (dalle loro attività professionali e parallele e secondarie), continuano a restare nell’elenco dei professionisti, continuano ad usufruire di tutti i vantaggi del caso; d) concedendo ai pubblicisti che dimostrino di avere maggiori competenze (e non soltanto i soldi in tasca…), il diritto alla professionalizzazione e a sostenere l’esame.
    Separare i citizen journalist dai pubblicisti, dai professionisti in pensione, dai giornalisti “volontari”, da coloro che non siano iscritti all’inpgi, avrebbe degli effetti positivi sulla qualità dell’informazione e rispetterebbe anche i lettori, che hanno i diritto di conoscere il grado d’autorevolezza di chi gli sta fornendo la notizia; chiarirebbe immediatamente che “giornalista” è soltanto chi svolge questa professione in base a delle competenze specifiche (che sono diverse da quelle dei blogger e degli articolisti/esperti in materia); impedirebbe (attraverso delle regole certe e delle leggi che occorrerà scrivere) agli editori di adibire i blogger (citizen jornalist e giornalisti inattivi e/o gratuiti) allo svolgimento del lavoro giornalistico, che questa categoria di persone non dovrà più sostituire. Andrebbe anche considerato il fatto che se il blogger avesse la sua “patente” di citizen journalist, il pubblicista campasse del suo primo lavoro (avendone realmente uno) e il professionista (anche quello disoccupato), un giornalista… potrebbe addirittura accadere che, sgombrato il campo da tale e tanta confusione, emerga perfino il lavoro nero.
    Una legge iniqua, invece, oggi vede i giornalisti combattere tra loro una guerra che non vincono i più BRAVI ma i più RICCHI (con tutte le disparità che una legge costitutiva, completamente fuori dalla realtà e lontana dal presente, ha creato).
    E questo sistema sta benissimo sia ai giornalisti ricchi sia agli editori: i primi possono sentirsi rassicurati perché non devono temere la concorrenza del giornalista che, per cause economiche, al riconoscimento della sua professionalità, non ci arriva, i secondi potranno continuare a sfruttare gli autonomi, quei professionisti che accettano compensi da fame o che lavorano gratuitamente (pur di non perdere l’iscrizione), i pubblicisti (blogger, collaboratori, citizen journalist, abusivi e tanta altra “varietà” che non si capisce davvero che cosa sia…).
    Ora: mi si potrà fare un discorso malamente discriminatorio ed affermare che chi viene pagato di più, vale di più. Mi si potrà ricordare che un pubblicista, volendo (e potendo), dopo 3 anni può chiedere l’iscrizione d’ufficio al registro dei praticanti : ma in questo caso occorrerebbe considerare che questa possibilità è reale soltanto sulla carta, perché il precario, l’autonomo, il freelance, sempre più spesso, viene assunto con contratti diversi da quello giornalistico, è un abusivo, è sotto-pagato, oppure è addirittura sostituito da altri soggetti, è perciò disoccupato e/o un lavoratore “intermittente”, non possiede il reddito di un praticante, probabilmente dovrà passare attraverso una causa legale contro il suo editore per vedersi riconosciuto il lavoro svolto, potrebbero servirgli molto più di 3 anni, perché dovrà fare più di un tentativo per domandare l’iscrizione nel registro dei praticanti! Il tempo passerà così, mentre l’abuso e il libertinaggio degli editori si consuma: quel giornalista non sarà mai riconosciuto. L’equo compenso garantirà soltanto chi è già occupato. L’attuale confusione di categoria nell’elenco dei pubblicisti farà sì che gli editori vi attingano perennemente nell’ottica di un risparmio garantito (tanto, sulla carta, costoro svolgono un altro lavoro… perciò hanno di che vivere… quando si prestano per scrivere volontariamente non nasce un contenzioso che si risolva applicando la Costituzione o la Carta di Firenze; né esiste un limite per quell’editore che, conservati quei pochi giornalisti con contratto che gli servono per non perdere i contributi economici, ricorra ad altre figure professionali “para-giornalistiche” che sostituiscano il lavoro dei redattori!
    La crisi del settore, sta trasformando l’informazione. La “rivoluzione tecnologica”, come si usa dire, avrà pure creato delle nuove figure giornalistiche ma non è stata internet a causare la precarizzazione e l’atrofia del settore.
    Combattere una battaglia per l’equo compenso, un’altra contro il prepensionamento, un’altra contro la riassunzione dei pensionati, un’altra contro il licenziamento di un giornalista con un contratto per assumere un collaboratore, e così via… E’ tutto inutile se non si risolve prima la questione del “giornalistificio”. Ma la soluzione non è a valle (nell’esclusione dei giornalisti inattivi o nei “giornalisti per caso” dalla categoria), semmai è a monte: laddove devono passare la definizione di nuove specificità professionali e una nuova regolamentazione dei criteri d’accesso alla professione che moltiplichi quelli attuali (che sono ESCLUSIVAMENTE di natura economica, è inutile nascondersi dietro un dito), li renda più elastici, attuali e adatti alla realtà e alla nuova faccia che il sistema dell’informazione e del mercato del lavoro giornalistico hanno assunto.

  • GiusyB

    …spero che il mio discorso sia comprensibile nonostante qualche refuso dovuto alla fretta dello scrivere. Se avessi avuto più tempo – magari non avrei sbagliato -, avrei chiesto ai “giornalisti per caso” se siano davvero convinti di voler fare questo lavoro, di spiegarmi quale valore attribuiscono a quella tessera che hanno in tasca. Dai pubblicisti più anziani, in particolare, vorrei sapere se – per loro che avevano ottenuto il riconoscimento del loro praticantato pubblicistico gratuito – essere dei giornalisti debba essere così facile, o più difficile; debba valere tanto o poco; debba costringere, oppure autorizzare, i colleghi più giovani a pensare che l’essere un pubblicista valga poco più di nulla: che si possa praticare il giornalismo per hobby ed accettare che la visibilità che molti editori offrono in cambio del lavoro sia un compenso sufficiente, giusto e accettabile.
    Io penso che, se vogliamo salvare la dignità della nostra professione ed impedire che il settore naufraghi miseramente, dobbiamo smetterla di essere dei vanitosi (la vanità è un difetto comune a molti giornalisti) e diventare più lungimiranti e meno “esclusivisti”.

  • Si sta creando una situazione a dir poco scandalosa: gli Ordini regionali continuano a sfornare “Pubblicisti” e gli esami di Stato i “Professionisti”. Entrambi sbandierano lo stesso tesserino professionale amaranto. Entrambi si definiscono precari e free lance, rivendicano giustizia retributiva e reclamano l'”equo compenso”. La maggioranza è destinata a restare senza lavoro perchè è il mercato ( e spesso la raccomandazione) che seleziona. Nessuno si fa avanti per ricordare che i “Pubblicisti”, mi dispiace dirlo perchè tanti di loro sono bravi, non possono in ogni caso esercitare la professione a pieno titolo per due indiscussi e indiscutibili motivi. Il primo: la Costituzione Italian, quindi la fonte primaria dello Stato, prescrive che l’esercizio di una professione è subordinato dal superamento dell’esame di stato, a prescindere dall’esistenza di un Ordine professionale. Il secondo: il recente decreto di agosto ha ribadito che, per essere giornalisti, bisogna superare l’esame di stato. A mio avviso provvedere subito a favorire l’accesso alla professione dei pubblicisti che svolgono a tempo pieno la professione di giornalista, poi occorre verificare la legittimità della permanenza nell’albo di quelli che non versano contributi all’Inpgi. Doveroso diversificare il colore del tesserino professionale: colleghi mi hanno riferito di imprenditori privati “giornalisti”, con tanto di tesserino amaranto, che pubblicano riviste aziendali sulle cui pagine la pubblicità coincide con la notizia. E questo non è corretto per una questione di dignità e immagine professionale.

  • GiusyB

    vorrei poter avere il diritto di diventare una professionista (per la mia formazione e per il lavoro che svolgo) e restare disoccupata a vita, piuttosto che sentirmi dire che non sono una redattrice e che violo la legge e dunque meriterei d’esser denunciata insieme al mio editore. Ormai, c’è una (non)scelta che mi sta molto a cuore: preferire un dignitoso stato di disoccupazione – accompagnato però dal riconoscimento della mia effettiva competenza – all'”infamia” di passare per un’abusiva, soltanto perché non ho avuto il diritto di lavorare. Le norme esistenti stabiliscono giustamente che “giornalista” è soltanto colui che mette piede in redazione e che supera un esame d’abilitazione. Ma queste norme sono inadeguate . E poi, in Italia, esistono giornalisti che si sono impiegati nelle redazioni prima che la legge istitutiva dell’Ordine entrasse in vigore, che sono divenuti professionisti automaticamente – senza aver sostenuto alcun esame – e poi hanno ricoperto la carica di Presidente dell’Ordine regionale
    Questa legge è obsoleta: contraddice la realtà e perfino sé stessa. E’ vero che i giornalisti sono tutti fuori dalle redazioni, oggi. E’ vero anche che gli “interni”, lavorano da casa, on line, via internet, visitando la redazione fisica soltanto in occasione della riunione di redazione, settimanalmente o quotidianamente.

  • Antonello Antonelli

    Credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che la legge professionale è ormai obsoleta. Il problema è che per cambiarla ci vuole un voto in Parlamento: e stiamo vedendo quant’è complicato far passare principi che dovrebbero essere del tutto condivisibili e “naturali” nelle aule di Camera e Senato!
    Chi vorrà mettere mano alla riforma dell’Ordine dei Giornalisti dopo una non-riforma degli ordini professionali in generale? Mi sa che dovremmo rinunciarci per diverso tempo, purtroppo!

  • Francesco Blasi

    Per Salvatore:

    giusto, anzi sacrosanto, che per svolgere la professione occorre aver superato l’esame di Stato. E, aggiungo io, partendo dal praticantato retribuito.

    Invece ti correggo sul criterio di selezione: il”mercato” in Italia non conta nulla -cioè non esiste, è un’astrazione fatta da noi che “abbiamo studiato” e conosciamo (spero in modo almeno sufficiente) le teorie economiche dalla Rivoluzione industriale in poi, che peraltro non ci ha mai realmente riguardato in quanto nazione. Il criterio effettuale nella nostra realtà è unicamente la raccomandazione. Lo è sempre stato, ma con una novità rispetto al passato: che opera in modo aprioristico. Cioè si crea dal nulla un giornalista, partendo da un robusto endorsement e nient’altro: il talento lo si scoprirà in seguito (se c’è) e il mestiere verrà con la pratica.

    Il “mercato” opera soltanto nella fascia alta (di visibilità e di reddito, qualche volta delle abilità professionali conclamate), ma non nella nostra fascia che è medio-bassa -vuoi perché operiamo sul locale, vuoi perché siamo sempre più granello di una massa in ineffabile e illogica crescita.

    Sono lustri, ormai, che nei giornali non si fa selezione con modalità di concorso. C’è chi cresce e invecchia in una testata dopo averne scritto pagine che messe insieme formerebbero un’enciclopedia in più volumi. Ma si rimane nel limbo mentre i predestinati al posto entrano da chissà dove e chissà come.

    ERgo, a non rispettare la Costituzione sono gli editori, con la complicità del duo Odg-Fnsi.

    Vogliamo discutere di questo?

    • Per Francesco Biasi
      La tua analisi è in gran parte condivisibile. Avendo vissuto per quasi un quarantennio nelle redazioni di quotidiani nazionali, mi è capitato di vedere di tutto e di più. I casi più ricorrenti sono sempre stati quelli di aspiranti redattori in lista d’attesa da anni che continuano a restarci perchè scavalcati da figure senza lode e senza infamia che vengono chissà da dove perchè nessuno le aveva viste. Premetto che non sono assolutamente contro i pubblicisti. Sono assolutamente solidale con questi colleghi che lavorano nei giornali e che meritano la stessa dignità economica e professionale dei colleghi redattori, quindi professionisti. Il vero problema, il nodo che nessuno vuole sciogliere è quello dell’accesso alla professione. Ne sento parlare da quando ero praticante (lo sono diventato per una notizia nuova, sensazionale che nessun altro giornale aveva. L’ho, insomma, conquistato sul campo, altrimenti sarei rimasto ad ingrossare la fila degli aspiranti).
      Oggi si accede al praticantato previa assunzione da parte dell’editore. E qui casca l’asino: gli editori “puri” sono scomparsi. Rappresentano il potere economico e hanno uno stretto legame con la politica. Ci sono anche le scuole, ma il numero chiuso esclude la gran massa degli aspiranti. Credo che bisogna liberalizzare l’accesso, permettere a tutti il praticantato e l’accesso alla professione e lasciare che sia il “mercato della notizia” a stabilire chi è meritevole. Ma, a monte, resterà sempre il problema degli editori fino a quando ci saranno rapporti “privilegiati” tra editori, politici e affaristi.

  • Meglio un giornalista disoccupato e "morto di fame" che un "giornalista prostituta"

    Il problema è un altro. Io ho fatto una collaborazione retribuita per due anni con un giornale. Ora sono iscritto all’Ordine, ma il giornale ha deciso di non farmi più collaborare. Io vorrei scrivere a tempo pieno, ho inviato diversi curriculum, ma nessun giornale mi ha risposto perché non sono raccomandato. Forse, pure, di questo dobbiamo parlare, invece, di offendere quei giornalisti come me disoccupati. Secondo me se una paga la tassa di iscrizione all’Ordine non dovrebbe venire cancellato, se hanno deciso di “licenziarmi” d’altronde non è colpa mia. Inoltre, voi “dotti” dell’Ordine più volte avete detto che i pubblicisti non possono essere considerati veri e propri giornalisti, tuttavia, poi volete buttarli via perché non si mantengono con tale professione. Se vogliamo parlare di mantenimento dobbiamo anche dire che è meglio un giornalista “morto di fame” che un giornalista che si mantiene con la sua professione prostituendosi, ma quanti sono i giornalisti “prostitute”? Un altissimo numero e, forse proprio questi hanno la fortuna di pagare i contributi INPGI.

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