Il lavoro giornalistico autonomo? Da fame. I risultati di un indagine Fnsi

Certamente lo sapevo, lo intuivo, lo sentivo, ma leggere i numeri, crudi, freddi, molto più che le percentuali, fa sempre un certo effetto: qualche giorno fa è stato rilanciato dalla Commissione Lavoro Autonomo della Fnsi, coordinata da Maurizio Bekar, collega friulano conosciuto nei giorni del teatro Odeon di Firenze, il testo dell’indagine conoscitiva realizzata nell’inverno 2010-2011 sui freelance e gli autonomi. In tempi di lavoro indefesso a favore dell’approvazione della legge sull’equo compenso, che pare ancora di là da venire, è sempre buono rileggere certi dati.

I numeri, dicevo, fanno impressione, anche se l’indagine non ha avuto pretese di scientificità, essendo stata condotta in 14 regioni attraverso la somministrazione di un questionario a coloro che sono stati disponibili a compilarlo: 873 le risposte. Di esse solo 63 (il 7% per chi ama le percentuali) hanno dichiarato di guadagnare più di 60 euro lordi a pezzo. Si attestano tra i 60 e i 30 euro lordi a pezzo in 560, mentre gli altri 250 guadagnano meno di quella cifra, che addirittura per 133 significa meno di 10 euro lordi a pezzo: non sotto l’equità ma addirittura sulla soglia dello sfruttamento vero e proprio. Sempre per un lavoro che non va mai sotto le 8-10 ore giornaliere e per la maggior parte senza rimborsi di spese telefoniche o di viaggio.

Il 30% di coloro che hanno risposto, 243 in tutto, sono titolari di partita Iva, che spesso nascondono in realtà un rapporto di lavoro parasubordinato. Sono invece 72 coloro che hanno un rapporto di lavoro con testate giornalistiche regolato dalle norme sul diritto d’autore.

Il tasto dolente, insieme all’iniquo compenso, sono i tempi di pagamento: in media si va dai 60 ai 90 giorni con punte di 8-12 mesi. E siccome la crisi è crisi per tutti, la quasi totalità degli interpellati dichiara di aver visto nell’ultimo anno ridotti sia i compensi che il numero di pezzi assegnati. Un taglio stimato da alcuni pari al 30-40%.

Questo il quadro. Come si può dire che la legge sull’equo compenso non è urgente? Come si può attendere ancora per la sua approvazione? Essa certo rappresenta quasi un palliativo, ma almeno pianta un paletto essenziale che va oltre anche i troppi colleghi che accettano di scrivere “per la visibilità” o che, peggio, sono pensionati e continuano a collaborare con le testate in cui erano assunti o altre, accontentandosi (tanto c’hanno la pensione al 27 del mese) di pochi euro e sconvolgendo il mercato del lavoro giornalistico, oltre che chiudere la porta professionale a molti bravi giovani e valenti colleghi “in erba”.

Il giornalismo non può diventare una professione che si pratica per hobby: la sua funzione è troppo importante all’interno di qualsiasi sistema democratico. L’equo compenso potrà indurre almeno questa consapevolezza. Per questo, pur consapevoli che (quasi) tutto congiura contro la sua approvazione, non ci arrendiamo e chiediamo a gran voce che il Senato si sbrighi a licenziare in fretta la legge. O almeno che abbiano il coraggio di dire a voce alta che non la vogliono!

Riporto qui di seguito gli approfondimenti proposti dall’indagine Fnsi per chi volesse “dilettarsi” nel comprendere ancor meglio la situazione attuale dei freelance italiani:

 

NOTE DI APPROFONDIMENTO

 

Nota metodologica

 

Le domande del questionario, autosomministrato, erano sei e riguardavano:

  • Il nome e il tipo di media con cui era in corso la collaborazione
  • Il tipo di accordo, ossia la forma giuridica della collaborazione
  • La quantità dei compensi
  • La presenza di eventuali rimborsi spese
  • I tempi di pagamento
  • L’andamento della collaborazione, ossia se si era riscontrato una diminuzione del lavoro, sia in termini quantitativi del lavoro commissionato, sia in termini di compensi

 

 

Analisi dei dati

 

Ai questionari hanno risposto centinaia di colleghi di tutta Italia rappresentativi delle varie declinazioni del lavoro giornalistico, dalla carta stampata, all’emittenza, al web, agli uffici stampa, alle agenzie.

Il quadro dei dati raccolti risente di alcuni limiti d’impostazione metodologica-statistica, ma da un esame del loro complesso si può affermare che l’indagine condotta dalla Commissione conferma in generale lo stato di grave disagio dei colleghi. Allo stesso tempo, però, la platea è talmente variegata che, in questa prima fase d’indagine, ogni conclusione che non sia di tipo generale rischia di essere fuorviante.

Da questa prima ricerca-test (che è stata volutamente incentrata solo sui dati essenziali di compensi, tipi di contratto e tempi di pagamento) non è possibile capire, per esempio, quanti sono i “pubblicisti classici”, ossia quelli che vivono di un altro lavoro prevalente e possono quindi anche permettersi di accettare compensi insultanti e tempi di pagamento biblici, a differenza dei pubblicisti che svolgano invece un’attività giornalistica esclusiva, o prevalente rispetto ad altre fonti di reddito.

 

Detto che i colleghi che hanno risposto in maniera più o meno adeguata e precisa al questionario somministrato hanno in buona parte dei casi più rapporti di collaborazione con altrettante testate e aziende di diverso genere, una delle prime cose che si notano è la grande varietà di rapporti di collaborazione. Ma spesso impropri, come la collaborazione occasionale, che per definizione non prevede due elementi tipici della collaborazione giornalistica, ossia la continuità e la coordinazione, quando invece questi spesso sussistono, ma senza l’applicazione della corrispondente tipologia contrattuale.

 

Altra forma di accordo usata impropriamente è la collaborazione a progetto, che la legge 30/2003 specificamente esclude -all’articolo 61, comma terzo- la possibilità di usare per i giornalisti:“Sono escluse dal campo di applicazione del presente capo le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali, esistenti alla data di entrata in vigore del presente Decreto Legislativo”.

 

Le altre forme di accordo vanno dalla cessione del diritto d’autore, alla collaborazione coordinata e continuativaalle Partite Iva più o meno “spontanee”, ma su questo aspetto non vi sono elementi per valutare quante di queste siano state aperte su pressione delle aziende.

 

In una ricerca, oltre alle risposte, è anche interessante fare attenzione ai missing values, i dati mancanti. Diversi colleghi non hanno saputo o voluto indicare il tipo di accordo contrattuale. In alcuni casi si può ritenere che non ci sia stata una lettera formale di inizio collaborazione, mentre in altri casi si può pensare ad un lavoro irregolare, “nero” o “grigio”, e in altri ancora si può pensare che il collega non si sia nemmeno preoccupato di chiarire un aspetto così basilare. Molto spesso le risposte mancanti si concentrano nella stessa scheda di risposta.

E’ difficile, però, attribuire un chiaro significato alla mancata risposta a una o più domande: anche se, icti oculi, le risposte mancanti sembrano essere presenti nei questionari di colleghi in condizioni di grave o gravissimo disagio economicoe quindi disposti ad accettare qualsiasi condizione lavorativa, o che sono sostanzialmente disinteressati agli aspetti retributivi-contributivi di un’attività che potrebbero svolgere da “pubblicisti classici”,cioè avendo un altro lavoro prevalente.

 

Il terzo elemento preso in considerazione dal monitoraggio riguarda i compensiIl panorama è, per usare un prudente eufemismo, molto “variegato”. Si va dai pagamenti a rigo, ai pagamento a pezzo con dei range anche notevoli e non sempre legati alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Interessante la presenza di alcune forme di accordo che prevedono un pagamento a pezzo e, allo stesso tempo un numero massimo di pezzi pagati al mese. Il che vuol dire che al collaboratore, una volta raggiunto il tetto fissato dall’azienda, o non vengono più commissionati pezzi, o non vengono più accettate le proposte di pezzi, oppure che i pezzi che superano il tetto non sono pagati; il che configurerebbe dal punto di vista contributivo e retributivo una situazione di lavoro irregolare.

Particolarmente impressionanti le risposte di quanti alla voce “compensi” hanno parlato di lavoro gratuito o volontario, come se le aziende editoriali fossero enti di volontariato o caritativi. In questo senso pare opportuno introdurre una netta distinzione concettuale tra quanti svolgono un’attività come hobby non retribuito e quei lavoratori che, nello spirito dell’articolo 36 della Costituzione, chiedono invece una retribuzione legata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, e comunque adeguata a garantire al lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”.

 

Molto più omogenea, invece la situazione legata alla questione dei rimborsi spese. Questo è uno degli elementi che rende particolarmente gravoso e difficilmente sostenibile il lavoro di autonomi e freelance, in modo particolare quelli che privi di Partita Iva e che quindi non possono scaricare le spese di produzione. La stragrande maggioranza delle aziende non riconosce alcun rimborso spese, cosa che consente loro di scaricare sulle spalle dei collaboratori, sempre più deboli e sempre meno pagati, una parte consistente dei costi di produzione. In alcuni casi i rimborsi spese sono riconosciuti solamente in parte, anche se vi sono (poche) aziende, che riconoscono e corrispondono i rimborsi spese ai loro collaboratori.

 

Un altro diffuso malcostume, ma questo è un vizio tutto italiano, riguarda i tempi di pagamento: in una percentuale corposa le aziende trattano i collaboratori come se fossero dei fornitori, con punte di pagamento a 12 mesi, ma nella mediana siamo fra i 60 e i 120 giorni. E anche le aziende che pagano fra i 30 e i 60 giorni hanno in realtà – in molti casi – un sistema a scorrimento per cui il primo pagamento arriva al terzo o al quarto mese di lavoro e corrisponde al lavoro del primo mese, e così via. La tipologia delle risposte ottenute non permette però di valutare adeguatamente quanto questo malvezzo sia diffuso. Anche qui si vede però in maniera plateale quanto pesa la debolezza dei giornalisti lavoratori autonomi nel rapportoone to one con l’azienda, e di come la frammentazione stessa del lavoro autonomo determini una posizione di debolezza in termini di contrattazione.

Fra l’altro il tema dei tempi di pagamento, non solo degli enti pubblici ma anche delle aziende, è stato affrontato in sede di Parlamento Europeo dove è stata approvata una direttiva che dev’essere recepita dagli Stati membri entro l’ottobre 2012. Ovviamente nulla vieta di farlo prima.Questo è un grave problema per molti colleghi, che da una parte devono affrontare le normali scadenze della vita quotidiana, dall’altra devono invece combattere con le aziende per essere pagati in tempi civili.

 

Infine l’ultima domanda del questionario, l’andamento della collaborazione, probabilmente la più complessa da valutare. Un conto infatti è affermare che il lavoro è diminuito, ma bisogna anche capire a quale forma di accordo, e a quali condizioni di lavoro, tempi di pagamento e accordi corrisponda. In linea generale si è riscontrato un calo delle collaborazioni e dei compensi, ma anche laddove non c’è stato un calo del lavoro commissionato o accettato dalle aziende c’è da fare attenzione: è evidente che il lavoro platealmente sottopagato o addirittura gratuito(che a rigore di logica non può nemmeno dirsi “lavoro”, anche se accettato dal collega) non subirà certamente un calo, soprattutto in tempi di crisi.

 

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