60 crediti formativi in tre anni: il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti sta disegnando la formazione permanente

In attesa che arrivi l’attesa convocazione presso il Ministero della Giustizia per discutere dell’applicazione della riforma degli ordini professionali per i giornalisti (il 13 agosto, dead line confermata dal ministro Severino, è sempre più vicina e i margini per una serena e tranquilla discussione iniziano a venire meno, per mere ragioni cronologiche), il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti è in queste ore riunito per definire le modalità di una delle novità che saranno introdotte dalla riforma stessa: la formazione permanente, mai tanto necessaria in una categoria che, dopo aver acquisito il titolo professionale, ripone libri ed aggiornamento nei cassetti e va avanti senza curarsi delle novità (anche legislative) che il mondo che si è chiamati a raccontare.

Lo schema sul quale il Consiglio nazionale sta discutendo appare equilibrato, anche se c’è qualche dettaglio che potrebbe essere cambiato, ma presenta un nodo che dovrebbe essere chiarito: chi paga una formazione obbligatoria e molto specialistica?

Andiamo con ordine (mai espressione fu più azzeccata).

Il regolamento attualmente in discussione (il Consiglio nazionale è riunito da ieri pomeriggio) dovrà avere un doppio passaggio: uno, quello che si sta svolgendo oggi in sessione plenaria, ed un altro con il confronto diretto con i presidenti degli Ordini regionali, cui competerà lo svolgimento delle attività di formazione e il controllo dell’adempimento dell’obbligo da parte dei colleghi.

L’obbligatorietà della formazione permanente sarà estesa a tutti gli iscritti, tranne i praticanti (che stanno già studiando per l’esame professionale) e i direttori delle testate specialistiche iscritte nell’apposito “elenco speciale”.

L’obbligo parte dal momento dell’iscrizione all’Ordine e scade al compimento dei 70 anni (quando si presume che il collega sia andato in pensione, immagino, salvo che i giovani attuali, me compreso, la pensione forse non la vedranno mai! Ma questo è un altro discorso).

Probabilmente gli iscritti a partire dal 13 agosto (per intenderci, quelli che dovranno sostenere comunque l’esame di Stato e scegliere in un secondo tempo se essere pubblicisti o professionisti), in virtù degli “studi” fatti per l’esame, vedranno scattare l’obbligo di formazione permanente dopo cinque anni dall’iscrizione.

Costituiscono attività di formazione una serie di eventi formativi, svolti anche all’estero, e riconosciuti dal Consiglio nazionale, che la bozza in discussione così esemplifica:

  • frequenza di corsi seminari master;
  • partecipazione agli eventi cui sopra in qualità di relatore;
  • pubblicazione di libri a carattere tecnico professionale e saggi attinenti la professione giornalistica su riviste specializzate;
  • insegnamento a livello accademico di discipline riguardanti la professione giornalistica;
  • partecipazione alle commissioni per gli esami di idoneità professionale;
  • svolgimento di attività formative a distanza;
  • frequenza di corsi di aggiornamento sull’utilizzo professionale di nuove tecnologie.

In un triennio occorrerà guadagnare in totale 60 crediti.

Ma come si calcolano questi crediti? Secondo la bozza in discussione ogni due ore di formazione danno luogo ad un credito formativo.

Chi erogherà la formazione? Gli Ordini regionali, che dovranno organizzare convegni, corsi ed eventi anche in collaborazione con università e privati.

Chi controllerà il mancato accumulo dei crediti necessari alla fine del triennio? Sempre gli Ordini regionali, che in caso di inottemperanza deferiranno il collega al Consiglio di disciplina per l’applicazione di una sanzione disciplinare.

Questo dunque il quadro che emerge dalla bozza in discussione. Ovviamente, sono presenti emendamenti che si stanno esaminando e che correggono il tiro di alcuni problemi che si evidenziano.

Mi permetto di fare qualche osservazione.

L’impianto della bozza è condivisibile, ci sono buoni spunti e si risponde con decisione alla necessità di riqualificare un’intera categoria “refrattaria” all’aggiornamento (lo so, l’ho già detto, ma secondo me va ripetuto molte volte per capire quanto sia importante la formazione continua), ma per una categoria in cui la maggioranza assoluta degli iscritti è precaria e comunque ha un reddito assolutamente insufficiente a permettere di potersi mantenere con la sola attività giornalistica, chi pagherà per questa formazione permanente, continua e specialistica? So che ci sono emendamenti in discussione per rendere obbligatoriamente gratuito almeno i due terzi della formazione che organizzano gli Ordini regionali.

Ottima cosa: ma gli Ordini regionali, che si troveranno già di fronte all’aumento dei costi di gestione per mantenere il Consiglio di disciplina (che potrebbe essere interregionale per ottimizzare le spese), come farebbero a garantire la gratuità di corsi ed eventi formativi comunque dispendiosi? Si va forse verso un nuovo aumento della quota di iscrizione? Già quest’anno il Consiglio nazionale ha permesso di elevare la quota annuale fino a 120 euro (e in Abruzzo ci siamo limitati a 110 euro), con immense proteste e aumento immediato del tasso di morosità… fin dove arriveremo?

Poi c’è la questione delle sanzioni: quale sarà la pena per chi non ottempererà all’obbligo? È realista pensare ad una sospensione per una cosa del genere? Credo di no. Quindi i deferiti se la caveranno con un avvertimento o al massimo, se recidivi, con una censura. Saranno queste le sanzioni che potranno far paura ai colleghi inadempienti? E quali saranno i costi per i Consigli di disciplina che dovranno obbligatoriamente aprire i relativi procedimenti disciplinari?

Immagino, per assurdo, uno scenario apocalittico. 2015, ossia tre anni dopo l’entrata in vigore dell’obbligo della formazione permanente: scattano le verifiche, degli attuali 110 mila colleghi (non si contano i nuovi che, come detto, beneficeranno, grazie all’esame professionale obbligatorio, di cinque anni di “moratoria”) mai formati – sottraendo la quota di ultrasettantenni diciamo che saranno 90 mila – i due terzi non ha ottemperato all’obbligo. Si apriranno 60 mila procedimenti disciplinari tutti di un colpo?

Come si vede, sono tante le domande che aleggiano sull’introduzione (per legge, giova ricordarlo) dell’obbligo di formazione permanente: tuttavia, ritengo che sia stata la previsione più utile ed assolutamente necessaria del cosiddetto “Decreto di Ferragosto” e che l’Ordine nazionale, come quelli regionali, dovranno fare di tutto per inculcare nei colleghi l’assoluta indispensabilità di questo aggiornamento periodico. Sarei anche disposto, lo dico sinceramente, ad accettare una maggiorazione della quota annuale di iscrizione se si riuscisse ad estendere davvero erga omnes la formazione permanente.

Intanto, il Consiglio nazionale prosegue con il suo dibattito, nella speranza che le soluzioni migliori possano essere trovate e messe in atto. Del resto, come è stato evidenziato in un articolo apparso qualche giorno fa sul sito “Giornalismo e democrazia”, che tanto scalpore ha suscitato negli ambienti giornalistici, anche la preparazione di coloro che affrontano gli esami di Stato sta scemando progressivamente, tant’è che aumenta la percentuale dei respinti fin dalla correzione degli elaborati scritti. Severità sacrosanta per una professione delicata che in troppi affrontano con faciloneria. Riflessione necessaria per la formazione che le scuole di giornalismo e soprattutto i corsi pre-esame organizzati dai singoli Ordini regionali offrono agli aspiranti professionisti e che ora sarà sempre più necessaria, stante l’obbligo di esame di Stato che tutti dovranno sostenere.

5 commenti

  • Carissimo,
    l’argomento è tanto ghiotto che non posso che rispondere con una battuta: “piatto ricco…”.
    E ti dirò, in attesa di sviluppare il concetto in uno di quei fluviali post che tu e pochi altri avete la pazienza di leggere sul mio blog, una cosa ENORME: a mio parere l’unica formazione continua, reale e seria di un giornalista è quella dettata dall’esercizio effettivo della professione. Nulla fa più scuola di un mestiere svolto per davvero, tutti i giorni, con le antenne a 360° su quello che succede nel mondo. Ciò che, sostanzialmente, integra la fattispecie professionale del giornalista.
    Altro che corsi, seminari, docenze, teleformazione (!), dispense e scartoffie. Tutta roba fatta per ingrassare qualcuno (spesso gli amici) e ingombrare i sottoscala a spese, come giustamente sottolinei, degli iscritti.
    Sia chiaro, sulla preparazione (ovvero la traduzione pratica della formazione) sfondi una porta aperta. Ma per saggiarla basterebbe un esamino periodico obbligatorio, mica un esamone di stato, per tutti. Finchè non “passi”, qualifica sospesa.
    Del resto se un tassista ha la patente sospesa o scaduto, mica può portare in giro la gente.
    Insomma concordo sulla teoria ma niente affatto sulla pratica.
    Questione complessa e delicata, lo so.
    Ma il problema è sempre alla radice: alzare drasticamente la soglia d’ingresso e sbattere fuori chi non è all’altezza. Cioè, mi sbilancio, un buon 50% dei colleghi.

  • GiusyB

    Col tuo articolo tocchi numerosi tasti dolenti, mentre l’impressione generale che ho è che con l’insieme di questi provvedimenti si cerchi di strozzare ancora di più la categoria, limitando ulteriormente il diritto all’accesso professionale ed infliggendo oneri economici assurdi ed iniqui.
    Nel testo si parla di obbligo e di formazione permanente e, contrariamente a quello che si possa comunemente pensare, la cosa mi riempie di gioia. Ma nell’elenco degli eventi formativi non vedo le LM 19 (quel gruppo di lauree in giornalismo ed editoria); non vedo alcun accenno a corsi e seminari, universitari e non, che non siano riconosciuti dall’ordine; non trovo alcun appiglio o speranza per chi, pur volendo accedere alla formazione e all’esame d’abilitazione, continua a restare una vittima del mercato: degli editori, che non ti assumono con un contratto, e delle regole dell’Ordine, che suggeriscono in sostanza che, se vuoi vederti riconosciuto il diritto di chiamarti “giornalista”, devi comprarti il diritto (ad esserlo), sottostando alla volontà di imprese giornalistiche (private) oppure pagandoti un master: soldi che, oltre a non garantirti una formazione adeguata (generalmente,4 mesi di lavoro in redazione + le materie teoriche di un qualsiasi corso di laurea attuale). Ti si ricatta, costringendoti a gettar via dei soldi – perché devi darli comunque a qualcuno che ti insegni qualcosa – per poi diventare formalmente un giornalista come gli altri, titolato, povero e disoccupato; ricco, contrattualizzato e presumibilmente, con poche capacità ed esperienza, perché “arrivato” nel ruolo perché le note “corsie preferenziali” te l’avevano permesso.
    Occorrerebbe invece bilanciare il sistema degli oneri, degli obblighi e dei diritti: chi vuole formarsi dovrebbe avere il diritto al riconoscimento delle proprie competenze, a svolgere il praticantato (senza subordinare questo diritto alle regole degli editori, che sono degli imprenditori, privati, mentre l’ordine professionale è un’istituzione pubblica!), in base alle proprie possibilità economiche. Allo stesso modo, quando e se aumenteranno le quote d’iscrizione, occorrerà adottare un sistema equo, che non costringa precari, autonomi, occasionali, a pagare le stesse quote dei colleghi che godono di contratti da VIP.
    Uno scenario apocalittico?
    Io mi prospetto una futura “guerra civile”, un massacro. Lo sterminio dei precari. Il ricatto per i ricchi e la forca per i poveri. Mentre nessuno parla di meritocrazia, di competenza, sembra che a definire la professione siano solo due parametri: quanto guadagni? Quando sei capace di spendere per formarti?

    …Sono consapevole di tutte le colpe del sistema della formazione italiana: le università non sono state capaci di presentare un progetto. I corsi (gli esami) di giornalismo restano isole “infelici” che vengono sommerse da una marea di materie inutili ed incoerenti.
    In questo paese in cui un sistema “democraticamente e costituzionalmente coerente” dell’informazione è ancora “in via di sviluppo”, un giornalista dovrebbe andare a formarsi all’estero, lavorare lì per poter vivere e poi tornare qui ed utilizzare tutte le risorse che ha?

  • GiusyB

    perdonami per la prolissità e per l’ortografia: è colpa della fretta (perché sto lavorando) e della preoccupazione: in sintesi credo che ci sia un vizio di fondo in tutte queste decisioni: il non considerare la competenza, il merito, la sostanza professionale, l’esclusione di tutti quei validissimi corsi di formazione o l’esperienza professionale acquisita “sul campo” che non siano costose, autorizzate dall’Ordine, remunerate equamente.
    In questo scenario, l’obbligo della formazione permanente appare come uno specchietto per le allodole: come un mezzo per calmare le ansie di quanti non riescono ad occuparsi, perché, soprattutto le scuole – colpevolmente -, continuano a formare più giornalisti di quanti il mercato del lavoro ne possa assorbire. Queste norme insomma, mettono il cappio al collo dei giornalisti (disoccupati, sottopagati, ecc), senza risolvere la piaga dello sfruttamento. Tutto ciò creerà nuove sacche di emarginazione, arricchendo il mercato delle piccole (e mediocri) testate dell’ultimo minuto,che non godranno dei finanziamenti pubblici ma che saranno sempre laboratori di vecchie e nuove schiavitù, perché comunque ti permetteranno di iscriverti all’ordine (con o senza esame, secondo tariffe sicuramente più alte delle attuali): altro che professionalizzazione della categoria!
    Pensare a criteri più rigidi contro il pullulare di piccole testate?
    Pensare ad incentivi che promuovano le situazioni virtuose?
    Creare le condizioni affinché sia la formazione sia la gestione delle risorse economiche siano esclusivamente affidate all’ordine?
    Spostare parte delle risorse destinate agli editori per finanziare i corsi di formazione?
    Affidare il ruolo di insegnante a giornalisti dal basso reddito?
    mah…

  • I colleghi Antonelli e Tesi, per chiarezza di idee e centrate considerazioni, basterebbero a sostituire tutti i gruppi di lavoro in tema di riordino della professione giornalistica. Nessun complimento, ma constatazione. Io, tuttavia, nutro qualche perplessità sulla persistenze della duplice figura “professionista-pubblicista”. I giornalisti, a mio avviso, debbono essere solo di un solo tipo, appunto il giornalista che esercita la professione di informare, al di fuori da ogni interesse personale anche se casuale o involontario. Quando, tanti anni fa, ho cominciato il “mestiere” di battere i marciapiedi in cerca di notizie (…già state malignando? Non vi permettete!), il mio capo (Resto del carlino) diceva: “vediamo cosa arriva dai pubblicisti”. Costoro, uomini dal capo canuto, donne imbellettate e con un grandi cammei sul bavero, portavano articoli di riflessione, recensioni di libri, etc. Erano contributi di vita, cultura, società, etc. Non si occupavano, in ogni caso di cronaca. In effetti la figura del pubblicista era nata (così raccontavano i colleghi più anziani) per dare spazio ai dotti, agli illustri docenti, etc. Successivamente la qualifica fu riconosciuta (giustamente) ai collaboratori che mandavano notizie da comuni della provincia o da settori della vita pubblica.
    Poi c’è stato il boom, provocato dalla impossibilità di accesso alla professione, causa la detenzione del “rubinetto” d’accesso nelle mani degli editori, che lo aprivano con il contagocce e la necessità delle redazioni di poter disporre di giovani fidati, capaci di trovare e scrivere notizie. La schiera dei “pubblicisti” si è infoltita a dismisura, reclamando il giusto riconoscimento professionale. Dobbiamo aiutarli a vincere questa battaglia, partendo dal principio che chi lavora in un giornale è un giornalista.
    A questo punto che vuol dire, come mi pare di aver capito, che tutti debbono fare l’esame di stato ma poi possono decidere di iscriversi nell’elenco dei “professionisti” o in quello dei “pubblicisti”? Mettiamo caso, un avvocato che esercita la professione essendo anche giornalista-pubblicista, esercitando la professione, può scrivere, trasformandola in notizia, contro un giudice particolarmente antipatico?
    Tanti anni fa, ero praticante legale e collaboratore di un quotidiano avviato a diventare pubblicista. Scoprii una notizia molto importante e segreta: fui assunto su proposta del direttore del giornale. Il mio primo atto, per legge, è stato quello di cancellarmi dall’albo degli avvocati. E allora perchè, con il nuovo ordinamento, dovrebbero continuare ad esserci giornalisti pubblicisti e professionisti? perchè non si pensa a dare sistemazione ai primi, magari eliminando la concorrenza di impiegati, commercianti, etc. che già guadagnano e usano molto spesso la qualifica di “pubblicista” per il loro torna conto?
    Salvatore Spoto
    giornalista pensionato de “Il Messaggero”

    • GiusyB

      Ciao caro collega,
      leggo il tuo commento e mi colpisce molto per tutte le riflessioni che è capace di suscitare. Non sono Antonello e nemmeno Stefano: sono una giovane pubblicista (per iscrizione ma non per esperienza) che sente di trovarsi inclusa nell’elenco sbagliato, per quelle difficoltà d’accesso alla professione di cui scrivi con tanta competenza e lucidità.
      I due elenchi esistono e dovranno continuare ad esistere perché esiste l’art.21 della Costituzione,per riconoscere e legittimare le pubblicazioni professionali degli esperti di settore che devono, giustamente, poter continuare a pubblicare assumendosi la responsabilità di quello che scrivono e rispondendone, prima l’Ordine e poi la legge. Perché, un giudice/avvocato che è anche un giornalista pubblicista e che abusa del mezzo d’informazione per creare immagini artificiose della realtà, per scagliarsi contro i suoi avversari o per manipolare la pubblica opinione è giusto che paghi. Se poi, grazie ad una maggiore diffusione della cultura giornalistica, situazioni del genere si riuscisse a prevenirle… sarebbe anche meglio, ma l’esperienza del giornalismo militante, di ex direttori del tg e dei casi come quello di Boffo, dimostrano che gli abusi vengono commessi anche da giornalisti professionisti che, rispetto a molti altri, hanno il diritto di definirsi tali.
      Anch’io – che sono una giornalista non per passione ma per natura, indole, costanza, molto spesso disoccupata, perché non ho mai ceduto al ricatto delle collaborazioni gratuite o alle vane illusioni dell’abusivismo – penso che sia giusto che esista solo una categoria di giornalisti, ma gli altri, i pubblicisti, innanzi tutto, devo poter essere responsabili (verso i lettori) di quello che scrivono e poi devono averne tutto il diritto, poiché la loro competenza specifica, di settore, giova all’informazione e completa il lavoro del cronista.
      In quanto ai “falsi pubblicisti” o ai “pubblicisti per rassegnazione”: questa è una mostruosità che ha creato il mercato editoriale negli ultimi 50 anni. Infatti, come tu stesso scrivi, si tratta di giornalisti (professionisti) mancati oppure di intellettuali che non hanno le idee molto chiare su quello che dovrebbe essere il ruolo del giornalista tout cour.

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