Perché è necessario l’equo compenso: due storie di segno (quasi) opposto

In attesa della fine dell’ennesimo cavillo venuto fuori ad intralciare il cammino dell’equo compenso, una legge che è una semplice enunciazione di civiltà e che non sarebbe dovuta neppure servire se la dignità del lavoro in Italia venisse rispettata pienamente, è bene far comprendere ai nostri editori quale sia la vita dell’80% dei giornalisti italiani, quelli che non hanno un contratto Fnsi.

Proprio per questo sarebbe bene raccogliere le storie di precariato che si incontrano lungo la strada e che incrociano le nostre vite: oggi ne ho due, una che mi è arrivata via mail quasi come una richiesta di aiuto e di comprensione, un’altra che giunge dall’Irlanda ed è stata diffuso via Facebook.

La prima è un amaro e disincantato sfogo (non del tutto condivisibile, ma è exempli gratia) del collega Daniele Ferro, che mi ha voluto raccontare della sua decisione di non iscriversi più all’Ordine dei Giornalisti a partire da quest’anno:

 

LETTERA APERTA DI UN EX GIORNALISTA PROFESSIONISTA (E PRECARIO)

Ho chiesto e ottenuto di essere cancellato dall’albo dei giornalisti.
Con questa mio piccolo, inutile gesto per la collettività, rivendico una mia dignità individuale contro il precariato e l’immobilismo delle istituzioni. Invito tutti coloro, giornalisti pubblicisti e professionisti precari, i quali si sentono umiliati dalla loro condizione di lavoro, a chiedere la cancellazione dall’albo.
Un paio di settimane fa ho preso una decisione dura, piena di dubbi: ho mandato una raccomandata all’Ordine dei giornalisti della Lombardia per chiedere di essere cancellato dall’albo dei professionisti. Mi sono sentito preso in giro dall’Ordine per due anni (sono professionista da fine 2010), e
sul sindacato meglio che mi taccia.
Se siamo arrivati a questo punto, qualcuno ne avrà pure colpa.
Quest’anno ho deciso di non buttare via 100 euro, più un’obbligatoria  iscrizione al’Inpgi che nel 2012 mi ha chiesto tanti euro di contributi quanti ne ho guadagnati.

Ad aprile andrò via dall’Italia fino a fine anno per un progetto in ambito europeo, siccome di giornalismo in Italia non riesco a camparci. Ma non metterò da parte l’idea di scrivere. Tanto posso farlo lo stesso, non c’è mica bisogno di essere nel’albo dell’Ordine per scrivere su un giornale, no?

Mentre in posta infilavo nella busta il tesserino da restituire all’Ordine, un misto di rabbia e sconforto mi stava quasi per sconvolgere l’animo. Mi  sono sentito colpevole, di fronte alla mia famiglia che ha fatto sacrifici per darmi la possibilità di studiare, di avere voluto frequentare una scuola di giornalismo, che costa come un giro del mondo.
Forse è colpa mia, certo non lo escludo. Forse in questa situazione di crisi solo i migliori riescono, e io non sono tra questi. Ma la rabbia mi rimane, perché per principio, ripeto, per principio, e in una repubblica che dice di fondarsi sul lavoro, certe paghe non dovrebbero essere azzardate nemmeno con il pensiero. Questo vale per tutti i settori, ma ancor più per la categoria dei giornalisti, siccome spesso, a mio parere, ha la presunzione di considerarsi custode della rettitudine. Il Consiglio dell’Ordine lombardo ha già provveduto alla cancellazione del mio nome dall’albo. Con questo piccolo, inutile gesto per la collettività, rivendico una dignità individuale contro il precariato e l’immobilismo delle istituzioni.Invito tutti coloro, giornalisti pubblicisti e professionisti precari, i quali si sentono umiliati dalla loro condizione di lavoro, a chiedere la cancellazione dall’albo.

Primo, perché se si è precari non serve essere iscritti all’Ordine, non essendoci contrattualizzazione giornalistica. Secondo, perché se per grazia ricevuta dovesse essere offerta un’assunzione, si può sempre iscriversi di nuovo. E terzo a pari merito col primo, perché se in massa ci cancelliamo
dall’Ordine, togliamo un po’ di legittimità a un organo che non ci tutela, e magari succede qualcosa.

Se Enzo Iacopino dovesse leggere questa lettera, so ciò che penserebbe per ribattere: si sta decidendo sul’equo compenso. A 28 anni, mi dicono, non si è imparato ancora molto dalla vita. Ma a una cosa ci sono arrivato. Non mi fido più di promesse, dichiarazioni, commissioni che si riuniscono. Aspetto i fatti e le conseguenze di medio termine, almeno. Perché intanto è
già passato un anno e mezzo dal convegno di Firenze sul precariato. Se poi l’equo compenso sarà una legge davvero utile, sarò felice di chiedere scusa per la mia sfiducia.  

 

Ovviamente, ci sono molte inesattezze sul ruolo dell’Ordine dei Giornalisti (che purtroppo sono condivise da troppi colleghi, che confondono i ruoli tra Ordine e Sindacato) e molta rabbia nello sfogo (che per l’appunto è tale) del collega. Quel che mi preme evidenziare è la profonda richiesta di equità retributiva che pervade la lettera aperta, che però sbaglia, a mio modo di vedere, il modo di rispondere ad una situazione così grave, soprattutto in un momento in cui l’unità della categoria per una lotta dura come quella che stiamo affrontando è fondamentale. Lo so, qualcuno mi darà del visionario idealista, ma è questa la formazione che ho ricevuto e al gioco di squadra ci credo.

Quasi a contraltare di questa lettera c’è l’esperienza raccontata su Facebook da Damiano Celestini, valente collega fino a qualche settimana fa firma (precaria) de “Il Messaggero” ed ora in Irlanda, dopo essere stato “gentilmente” invitato ad andare via:

 

DIALOGO IRLANDESE – SOTTOTITOLO “IO E IL TIZIO DELL’AGENZIA DI RECRUITMENT AL TELEFONO”

 

Driiiiiiin driiiiiiiin (telefono)

 

Io: “Hello”

 

Tizio: “Ciao Damiano sono Tizio dell’Agenzia Tizia ti chiamo per l’offerta di lavoro Tizia a cui ti sei candidato”. (Per la cronaca mi ero candidato appena tre ore prima).

 

Io: “Ah, grandioso. Dimmi tutto”

 

Tizio: “Volevo farti qualche domanda per avere informazioni in più circa la tua esperienza ecc… sei libero?”

 

Io: “Certo, certo”

 

Tizio: “Leggo dal tuo CV che hai lavorato anche come giornalista in Italia giusto?”

 

Io: “Si per gran parte del tempo ho fatto quello…”

 

Tizio: “Benone, senti quali sono le tue aspettative di stipendio annuale?”

(Se ve lo state domandando: sì, qui ti chiedono quanto vuoi guadagnare. Sempre).

 

Io: sparo una cifra.

 

Tizio: “Bene, bene. Senti ma quanto guadagnavi in Italia?”

 

Io: sospiro e dico cifra.

 

Tizio (dopo secondo di incredulo silenzio): “No aspetta Damiano scusami credo di non aver capito bene”.

 

Io: “No, no hai capito bene”. E ripeto cifra.

 

Tizio: “No Damiano scusami ma allora mi sono confuso. Ma tu non lavoravi full time?”

 

Io: “Sì…”

 

Tizio: “Ok però qui vedo che scrivevi per più testate quindi ti riferisci magari a una sola quella, per cui scrivevi di meno? Oppure il tuo stipendio iniziale”.

 

Io: “No, cifra complessiva. E il mio stipendio in 10 anni è stato praticamente lo stesso. Anzi ultimamente era pure calato…”

 

Tizio: “Ah… ok… ok… no è che … sì…. sapevo che in Italia gli stipendi sono più bassi ma…. Cacchio… wow…”

 

Io: “…”

 

Tizio: “Hai intenzione di tornare in Italia?”

 

Io: “Secondo te?”

 

Tizio: “Metto che se sei disponibile anche a contratti di lungo periodo…”

 

 

[Ecco perché in Italia serve attuare l’equo compenso dei giornalisti freelance, n.d.r.]

 

Il commento del collega è già tutto un programma ed io lo sottoscrivo in pieno.

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