Una semplice riflessione di buon senso sull’egoismo di una categoria

Quanti giornalisti negli ultimi venti anni si sono tolti 10 euro dal contratto per darli ai giovani e rendere più accessibile la professione?

 

Una riflessione semplice e spontanea che è affiorata nel corso della tavola rotonda del modulo formativo del Settore Adulti dell’Azione Cattolica Italiana, a cui partecipavo a San Felice Circeo: ad articolarla è stato Marco Iasevoli, già vicepresidente del Settore Giovani di AC e da poco giornalista contrattualizzato di “Avvenire”, dopo i suoi esordi come collaboratore (precario) de “Il Mattino”.

La riflessione si inquadrava nel contesto del modulo formativo sulle incertezze e sulla situazione dei Giovani-Adulti/Adulti-Giovani (cioè della fascia che va dai 25 ai 40 anni), descritte nel sussidio “Il sogno si fa vita” (al quale anch’io ho contribuito con alcuni interventi), ma sono importanti spunti anche per i colleghi precari ed ancor di più per quelli contrattualizzati.

Proseguiva infatti Marco nel suo intervento:

 

Quando ho guadagnato il primo stipendio da giornalista assunto mi sono vergognato perché in quella busta paga c’erano tanti soldi e tanti privilegi. Sono stato precario e so bene cosa significa guadagnare 15 euro lordi al pezzo ed io a “Il Mattino” ero tra i più fortunati, visto che ci sono colleghi che guadagnano 2,50 euro lordi a pezzo e sono sotto la minaccia della camorra!

 

Conosco Marco da tempo per il suo servizio associativo e sono certissimo della verità delle sue parole e del suo rammarico. Chiaramente è evidente che una parte della responsabilità dell’attuale situazione del giornalismo in Italia è da attribuirsi agli stessi colleghi che hanno tenuto stretti i privilegi e le retribuzioni blindate, senza preoccuparsi troppo (una gran parte di essi, ovviamente, non tutti) di ciò che accadeva nelle “retrovie”. Una nuova consapevolezza unitaria potrebbe (se non siamo già in forte ritardo) migliorare la situazione e in primo luogo ci sarebbe da insistere fortemente su un punto del contratto giornalistico, abbandonato forse troppo in fretta nello scorso, lunghissimo, rinnovo: una seppur minima regolazione contrattuale del lavoro autonomo (che può sembrare un ossimoro, in effetti, ma credo che sia semplicemente la regolarizzazione di una situazione di molti, troppi, “falsi autonomi” che girano per tutte le redazioni giornalistiche).

Ovviamente questa è una riflessione “a caldo” e “notturna”, nei prossimi giorni spero si possa discutere anche su questi temi.

3 commenti

  • Dai, non farmi passare per il solito pessimista (costruttivo?)…Ci sono tempi, cose, circostanze che, una volta passati, non si recuperano. Come i treni.
    Una di queste è stata l’adeguamento contrattuale, deontologico, ordinistico della professione. Si è lasciato, per dolo o per colpa (quale delle due sia peggio, non lo so), che il pur lunghissimo momento in cui fare tutto questo era utile e possibile trascorresse senza colpo ferire. E ora, che la malattia è divenuta terminale, tutti si agitano con l’aspirina in mano.
    Regolamentare oggi il lavoro autonomo è un’impresa disperata: gli editori non vogliono, il sindacato nemmeno (chiacchierino pure…) e anche se volesse non ne avrebbe la forza, se poi il miracolo accadesse i primi a esserne travolti sarebbe gli…autonomi, ovvero quelli che miopemente oggi si considerano tali: una massa in cui c’è di tutto e che uscirebbe tramortita, o morta del tutto, dalla selezione terrificante che, nel nome del contratto (e quindi di compensi più alti e inderogabili), sarebbe susseguente alla regolamentazione.
    Certo, una falcidia che riducesse un parco-giornalisti quintuplo rispetto al fabbisogno del mercato sarebbe un toccasana per il sistema, un po’ meno però per le migliaia di singoli che ne farebbero le spese. Perchè scordiamoci che gli irregolari nelle redazioni possano tutti essere regolarizzati: chiuderebbero le redazioni e fallirebbero gli editori, piuttosto.
    Quindi tutto resterà com’è e scenderemo nel gorgo muti.
    Accetto scommesse.
    Ciao, S.

  • La proposta del collega Marco Iasevoli, improntata a equità e solidarietà, si scontra con la realtà.
    Il collega Marco riceve uno stipendio che lo fa arrossire perchè contrasta il suo modo (encomiabile) di vedere la vita. Ma, appunto per una questione di equità, i redattori sono pesantemente tassati, anche per motivi solidali. I giornalisti non hanno la previdenza pubblica dell’Inps, ma quella privata dell’Inpgi, che non eroga solo pensioni ma anche assistenza ai disoccupati (cassa integrativa), ai colleghi in cassa integrazione e prepensionati.
    Poichè gli editori presentano al Ministero competente piani di ristrutturazione redazionali a go-gò, tutti i redattori subiscono una decurtazione aziendale per sostenere i livelli stipendiali ai colleghi “espulsi” ex legge” dal lavoro redazionale. Non solo. i redattori sono tenuti a lavorare di notte, la domenica e nei giorni festivi. Fanno turni massacranti perchè gli editori si guardano bene dall’assumere giornalisti sostituti in caso di malattie o maternità. Negli ultimi 15 anni la vita in redazione è cambiata in peggio. Si tende a smaltire il personale per sostituirlo con collaboratori da pagare pochi euro a servizio. Loro puntano al cosiddetto “precariato”, tentando di stabilizzare la vergognosa situazione attuale, sicuri della estrema debolezza del sindacato e, debbo purtroppo dirlo, della confusione che regna nell’Ordine per la presenza di chi è disposto a scrivere gratuitamente, tanto per fregiarsi ella qualifica di giornalista. Ecco perchè è assolutamente necessaria la legge sull'”equo compenso” e l’applicazione della norma del recente dpr sulla riforma delle professione che sancisce l’obbligo dell’esame di stato per essere giornalisti.

  • Mariangela

    Nella mia forse breve- ma intensa e precaria- esperienza lavorativa, ho potuto constatare quanta poca solidarietà ci sia tra lavoratori: una caratteristica che si può trovare in ogni campo, non solo in quello giornalistico. Detto questo, credo che donare dieci euro al collega sfruttato e sottopagato possa essere un piccolo passo, ma non la soluzione al problema.Necessario è un cambio radicale nel modo di pensare e concepire la professione di giornalista:no, non tutti possono svolgere questo lavoro perché riescono a mettere insieme due parole in italiano. E sì, va retribuito come ogni altra professione, come ogni altra occupazione. Qualcuno chiederebbe mai ad un avvocato di seguire una causa gratis per farsi conoscere?Oppure a un commercialista di occuparsi della contabilità di un’azienda per imparare ed esercitarsi? Finché ci saranno persone che passano da uno stage all’altro, da una collaborazione all’altra per mesi, senza mai percepire uno stipendio e solo per riempire il curriculum di nomi importanti in attesa dell’occasione o, più propriamente, dell’incontro giusto, le cose continueranno ad andare avanti in questo modo.Io, giornalista pubblicista classe ’79, spesso mi sento già vecchia, qualche volta frustrata, sempre scavalcata da chi ha più tempo, più risorse economiche, più conoscenze. Per quanto grandi siano la mia passione,la mia forza di volontà, la mia tenacia, devo pur pagare le bollette. La battaglia continua all’ombra, alla fine delle giornate lavorative che mi permettono di costruirmi un’indipendenza economica e che poco hanno a che fare con l’aspirazione della vita.

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