I giornalisti freelance in Italia riescono a vivere del proprio lavoro? Not, of course!!

Davvero la domanda che fa da titolo a questo post, purtroppo, è ormai un interrogativo retorico: lo conferma l’esperienza personale e quella, ben più dura, di moltissimi colleghi che tentano di vivere (o almeno sopravvivere) svolgendo solo la professione giornalistica, che, insidiata da migliaia di aspiranti colleghi o di pensionati dal reddito più che garantito che sono pronti a scrivere per pochi spiccioli o addirittura “per la gloria” (come si dice icasticamente dalle mie parti), sta diventando sempre di più un esercizio letterario riservato a chi non ha problemi economici o a chi ha altre fonti di reddito, con tutte le conseguenze immaginabili sulla qualità dell’informazione.

A riportare l’attenzione sul tema delle retribuzioni dei freelance è stata la divulgazione dei risultati di un sondaggio informale, senza quindi valore statistico, ma di grande interesse, in quanto condotto su base volontaria tra colleghi che effettivamente esercitano la professione come freelance, curato dalla collega Ines Macchiarola, animatrice instancabile del gruppo Facebook “Comunicando”, tra i migliori, quanto ad utilità e rigore, che circolano sul social network. 

Questi sono i numeri riportati da questo sondaggio:

 

Sondaggio: “In quale percentuale gli introiti professionali dei giornalisti freelance incidono sul bilancio reale di mantenimento della famiglia e quali sono le soglie di effettivo esercizio della professione?”
Di INES MACCHIAROLA.

Il sondaggio è stato lanciato l’11 aprile 2012, attraverso un evento pubblico creato su Facebook. Le interviste sono state tuttavia effettuate in privato ed in forma anonima, senza una votazione pubblica. E’ stato invitato a partecipare un totale di oltre cento iscritti al gruppo ‘Comunicando’, con il fine di ottenere un numero di risposte pari almeno alla metà degli invitati. Il risultato è stato raggiunto attraverso il contatto diretto con gli interessati.
Dal sondaggio sono emerse diverse casistiche:
1) il 38,8% dei professionisti dichiara, con la propria attività, di incidere sul bilancio familiare tra lo 0 e il 5%. Curioso che ben l’86% risulti essere single e aiutato da genitori e parent
i per le spese fisse compreso di alloggio, mentre il 14% dichiara di essere coniugato e di vivere grazie al reddito del coniuge, compreso l’aiuto di genitori ormai pensionati.
2) Il 5,5% dichiara di incidere sul bilancio familiare tra il 18 e il 20%: si tratta di single che vivono di altra occupazione nel ramo della comunicazione.
3) il 17% dichiara di incidere tra il 25 e 30%: di questi, una metà è single aiutato da genitori e parenti per spese di affitto o vive con i genitori, l’altra metà è coniugato e aiutato dai rispettivi suoceri pensionati.
4) il 5,5% dichiara di contribuire nel bilancio familiare per il 50% ed è coniugato all’interno di un nucleo familiare sostenuto da due redditi.
5) il 5,5% dichiara di incidere sul bilancio familiare per il 60%. Si tratta di soggetti single mononucleo che esercitano un’attività compensativa di addetto stampa per aziende pubbliche.
6) L’11% dichiara di incidere per il 100% ed è costituito per la metà da soggetti single mononucleo e monoreddito, e per la restante metà da coniugati monoreddito.
7) il 16,6% invece rappresenta la quota di soggetti che sono giornalisti di nome con un’attività da freelance in start up ed in temporanea perdita.

 

I numeri, sebbene riflettano una realtà ben conosciuta, quando vengono spiattellati nella loro crudezza sono sempre molto efficaci e, in questo caso, impressionanti: come sintetizza bene Ines, il 78% dei giornalisti freelance è abbondantemente al di sotto della soglia di indipendenza economica ed è nella fascia d’età dai 30/40 anni in su. Chi ha da sempre esercitato la professione vivendo di questa è di fatto appena il 22% del totale. Inoltre, il 17% dei partecipanti al sondaggio è composto da neo-autonomi in fase di start up professionale.

Insomma, occorre dare ragione ai miei genitori (“Trovati un lavoro serio”) o al mio primo caposervizio (“Questo mestiere fallo solo per hobby”), come io stesso ricordo a tutti gli aspiranti giornalisti che mi chiedono lumi su come entrare nel mondo (non più fantasmagorico) del giornalismo? Purtroppo, pare proprio di sì, e la china verso il basso pare inarrestabile, esasperata proprio da chi accetta (sì, da chi accetta, perché sono poche, almeno a mia conoscenza diretta, le situazioni che si subiscono) di non essere pagato il giusto o addirittura non essere pagato affatto per qualcosa che è, a tutti gli effetti, un lavoro.

Chiamare lavoro ciò che non è retribuito è un ossimoro irrimediabile e se chi è costretto a lavorare senza essere retribuito è uno schiavo, chi lo fa volontariamente senza essere pagato andrebbe definito servo. Con buona pace dei buonisti di turno e di chi afferma che per avvicinarsi al mondo del giornalismo occorre accettare la “gavetta” (sacrosanta, ma non a livello economico) o condizioni non proprio favorevoli, tutto pur di raggiungere l’agognato titolo e con esso il “magnifico” tesserino da pubblicista. In realtà, nessun medico ha mai ordinato ad alcuno di dover fare il giornalista: se le condizioni offerte non sono sostenibili, allora si cambia mestiere.

È la vita, bellezza: non esiste il diritto inalienabile ad essere giornalisti.

La legge sull’equo compenso, che spero vivamente possa riprendere la sua corsa al Senato dopo lo stop “imposto” da alcune perplessità da parte di alcuni esponenti politici (nonostante l’unanimità di consensi con la quale è stata licenziata dalla Camera dei Deputati), porterà – lo spero – anche a questo: una falcidia, triste ma sacrosanta, di giornalisti che accettano di operare per poco o nulla, visto che, dovendo le aziende editoriali rispettare minimi retributivi standard, si privilegerebbero i colleghi migliori.

Rimarrebbe però tutto quel mondo di testate e testatine che non aspira ai contributi pubblici e che quindi rimarrebbero immuni dalla legge sull’equo compenso: per queste occorrerebbe invocare la “schiena dritta” dei colleghi già iscritti all’Ordine, utilizzando la Carta di Firenze ed anche una riforma dell’accesso alla professione che tagli fuori le certificazioni “di comodo”.

A proposito, nulla di personale per questa mia “filippica”: nel sondaggio, a cui ho partecipato anch’io, la mia posizione è quella “privilegiata”. Ma fino a quando?

Per questo mi accodo al grido di allarme del collega Stefano Tesi, nel post, apparso stamattina, anch’esso a commento dell’indagine di “Comunicando”, che raccomando vivamente di leggere.

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